C’è un racconto del filosofo Jean Paul Sartre La Camera, pubblicato poi nel 1939 nella raccolta Il muro, che descrive il dramma di una “normale” famiglia borghese che si trova a vivere una progressiva dissociazione psicologica con il mondo esterno, in un crescendo di angoscia, disperazione e follia, rispetto alle quali le regole e le convenzioni diventano agli occhi del lettore dei fantasmi tanto convenzionali, quanto conflittuali. È una sorta di parabola con la quale Sartre ci invita tuttora a riflettere sulla condizione con cui gli esseri umani possono scegliere, più o meno inconsapevolmente, un loro carcere personale. Ma in che cosa differisce la finzione sartriana rispetto a quello che si vive in un carcere reale, dove non c’è di solito spazio per la letteratura, né per le suggestioni artistiche a cui la società è legata? Lo abbiamo chiesto alla Dott.ssa Giulia Ribaudo, Presidente di Closer, associazione culturale che dal 2016 opera in territorio veneziano per organizzare, tra le numerose altre attività, workshops e progetti culturali destinati alle donne che sono recluse all’ interno del Carcere femminile della Giudecca a Venezia.

Arte e tecnologia sono i due percorsi sui quali vi basate, come associazione, per operare con attività di volontariato, per il miglioramento e il recupero dei detenuti. Con quali modalità?

In questo momento stiamo lavorando molto sulla letteratura, mentre la tecnologia è ancora in una fase progettuale. Per costruire il nostro progetto centrato sulla letteratura in ambito carcerario, siamo partiti dalla biblioteca e dai libri che avevano a disposizione i detenuti, in modo da renderli fruibili, anche a tutti coloro che da fuori vogliano servirsene. Per creare una sinergia, tra il dentro e il fuori, per far sì che la letteratura, e l’arte in senso ampio, possano diventare oggetto di comunicazione e di scambio tra il mondo esterno e quello interno.

Quali sono le opere principali che si possono trovare in un carcere. O per lo meno quelle che avete trovato voi?

Si trovano i grandi classici e per lo più romanzi di genere rosa, ma anche opere di Melania Mazzucco che poi abbiamo invitato, approfittando della sua presenza nell’ambito del Festival “Incroci di Civiltà”, organizzato dall’ Università “ Ca’ Foscari” di Venezia. Come associazione però, oltre che a scrittori affermati come lei, puntiamo a presentare autori emergenti, o poco noti, anche se ovviamente di valore. Tra gli altri abbiamo fatto conoscere Vanessa Roghi, che ha presentato La Piccola Città totalmente incentrato sulla storia contemporanea, in cui racconta una vicenda autobiografica, in cui narra di suo padre, uomo di sinistra, del PCI in Toscana, caduto nella spirale dell’eroina, per una serie di circostanze private e politiche al tempo stesso. Il libro, oltre ad essere piaciuto molto a noi dell’Associazione, è risultato molto coinvolgente per molte donne del carcere, che molto spesso hanno vissuto e vivono il dramma della dipendenza dalla droga e incontrare Vanessa Roghi ha avuto un grande impatto emotivo, forse anche, per certi versi, liberatorio. Analoga situazione si è creata con Veronica Raimo, scrittrice non più giovane, ma che con il suo libro Miden, che è la storia di un professore che aveva stuprato una sua studentessa, ha dato lo spunto per un ampio dialogo e confronto, perché sono molte le detenute che hanno vissuto il dramma dello stupro, come del resto altre donne che  non hanno avuto il coraggio di denunciare questo tipo di violenza.

Come operate per avvicinare le detenute alla lettura   e in senso più ampio alla letteratura?

Considerando che il nostro progetto, come esito finale di ogni lettura, ha l’intervista allo scrittore/scrittrice e per questo lo abbiamo anche provocatoriamente chiamato IAS– Interrogatorio Alla Scrittura, partiamo per lo più da approcci semplici e diretti.  Utilizziamo fotocopie di interviste fatte alle autrici o agli autori del libro o con delle sinossi dei brani più significativi dei libri scelti oppure, tenendo conto che in carcere internet non è disponibile, anche mettendo le detenute al corrente di un post di facebook in cui l’autore ha una pagina personale in modo da renderle partecipi di tematiche che altrimenti non potrebbero condividere.  Quindi lasciamo loro da leggere liberamente il libro, riservando a un secondo momento il confronto. Spesso quando torniamo ci viene detto che il libro non è piaciuto o che fa addirittura schifo, ma noi approfittiamo proprio di questo atteggiamento denigratorio, per fare partire una discussione finalizzata a parlare dei contenuti dell’opera, in modo progressivamente funzionale e preparatoria all’ incontro con l’autore. Anche se non è semplice fare avvicinare le detenute alla lettura e dobbiamo sempre lavorare molto per creare l’empatia giusta per la lettura del libro, l’esito, rispetto alle impressioni iniziali, è di solito positivo.  Ed è forse questa la parte più bella della nostra proposta culturale.  

Logo dell’Associazione CLOSER

Riuscite in ogni modo a fare loro cambiare più o meno facilmente opinione?

In linea di massima sì, e credo dipenda dal fatto che in prima battuta spesso non leggono neanche interamente il libro e molte di loro in tal modo ne abbiano un’idea falsata e dunque negativa e pregiudiziale dell’opera e dell’autore. Siccome siamo consapevoli di questo approccio, facciamo in modo che siano sempre loro a scegliere l’autore, senza mai imporre loro nulla, cosicchè l’oggetto della discussione, che poi nasce spontaneamente, diventi il punto di partenza per aiutarle a formulare le domande che loro stesse faranno agli autori. Insomma, cerchiamo di fare   vivere loro il romanzo e, in senso lato la lettura, in semplice e diretto, senza tecnicismi, che credo funzionerebbero poco anche in una scuola con degli allievi che si avvicinano per la prima volta alla lettura, in un’epoca in cui si legge sempre meno.

Quante sono le detenute effettivamente interessate ai vostri percorsi?

Di solito a seguire con assiduità sono tre o quattro ragazze tossicodipendenti, nostre coetanee e che ci hanno fatto capire, senza entrare in dettagli troppo personali, che prima di finire lì dentro frequentavano i nostri stessi locali, o addirittura la stessa parrocchia di quando eravamo bambine. Con loro c’è una vicinanza anagrafica, ma ci sono detenute più anziane, che spesso hanno delle pene un più lunghe da scontare e  che, pur non partecipando direttamente alle nostre attività, invogliano le più giovani, anche un modo talvolta materno, a seguirci. E questo è un aspetto fondamentale, perché si crea un ponte tra l’una e l’altra generazione, confermando un bisogno di trovare delle risposte, chi in modo più diretto, chi forse meno dalla lettura, esattamente come accade a tutti, anche a chi non ha mai avuto problemi con la giustizia.

A proposito mi pare che ci siano molte persone che da fuori chiedono potere assistere ai vostri incontri…

Sì, e questo è anche lo scopo di questa iniziativa che intende mettere in dialogo due mondi, quello ristretto del carcere e quello di chi sta fuori. Pubblicizziamo gli eventi aperti al pubblico sui social, postando l’annuncio un mese prima, e raccogliamo i nominativi di chi aderisce all’ iniziativa e i loro dati, per comunicarli alle autorità competenti, che di solito consentono l’accesso a non più di cinquanta persone. Si tratta di un numero limitato, rispetto all’ elevato numero di richieste di partecipazione che riceviamo, ma è comunque importante, perché evidenzia come l’istituzione carceraria sia recettiva e interessata a quello che facciamo.

Con quali esiti? Non è sempre facile fare incontrare le persone “innocenti” con chi sconta una pena detentiva.

Vero! Ma di fatto l’interazione tra coloro che riescono a partecipare e i detenuti è buona e assolutamente gratificante, per la possibilità di confronto e di condivisione in un ambiente che per un paio d’ore diventa spazio di libertà per tutti. Certo, le persone che partecipano agli incontri (il prossimo incontro avverrà il 14 ottobre) si rendono subito conto che non devono fare domande personali alle detenute e che devono rispettare il lavoro di approfondimento e di consentire loro di valorizzarlo intervistando direttamente l’autore. Per il resto il clima è identico a quello di in un normale  incontro in libreria.

Misure preventive assolutamente comprensibili, ma non sono limitanti?

No, perché ci sono al centro il libro e l’autore a polarizzare l’interazione tra i presenti, in modo che si instauri una giusta sintonia. Per esempio, nel caso dell’incontro con lo scrittore Giorgio Fontana, in cui l’autore ha parlato del suo romanzo, Morte di un uomo felice incentrato sulla vita di un magistrato le domande tendevano a coinvolgere tanto le detenute, quanto i partecipanti esterni.

State per iniziare anche un progetto di scrittura creativa?

Sì, vorremmo partire dai desideri e dai sogni che le detenute fanno e che spesso ci raccontano, facendo   mettere nero su bianco le loro emozioni, ma il tutto al momento non è strutturato e ancora troppo spontaneo. Siamo però intenzionati a realizzare un vero e proprio progetto di gioco  creativo basato sul metodo surrealista  del   Cadavre Esquis [1] di Breton perché le ragazze si stanno divertendo molto.

Cosa pensi della presunta specularità tra il mondo civile e il carcere, propugnata da un certo tipo di intellettuali, sociologi ecc…?

Se per mondo intendiamo le dinamiche che si creano tra le due diverse realtà, devo dire che le differenze sono ben poche. Ad esempio, il problema del razzismo, lo troviamo dentro e fuori dal carcere, nel senso che ci sono sinergie negative, che portano ad escludere tra loro persone di etnia diversa. Ma anche per dinamiche più comuni, faccio riferimento ai convenzionali giochi di potere e di prevaricazione, che    comunemente si instaurano un po’ in tutte le relazioni umane, la realtà tra dentro e fuori, non cambia affatto. Perché nell’ uno e nell’ altro ambiente c’ è un rispetto formale ed esteriore per le leggi e le regole, che però purtroppo vengono trasgredite all’ insegna della prevaricazione più o meno subdola. La stessa che si può trovare in scuola, in una fabbrica o  un ufficio, insomma.

E i libri servono anche ad abbattere o quanto meno a ridimensionare questi conflitti?

Si, assolutamente, guai se non ci fossero!


[1] “Gioco  inventato  nel 1925 dal Caposcuola del Surealismo  Andrè Breton in collaborazione con Jacques Prevert, Marx Ernst e altri  scrittori  ed intellettuali , consistente  nel far comporre una frase, o un disegno, a più persone senza che nessuna di loro potesse  tener conto della collaborazione o delle collaborazioni  dei partecipanti precedenti. “

Stefano Stringini
Docente di Lettere presso il Liceo G. Berto di Mogliano. Ha pubblicato alcuni libri di Poesie: “Emermesi” (Pescara, Tracce, 1986), “Breviari, Taccuini e Baedekers” ( Bologna, Andomeda, 1992), “Rimario d’ Oltremura” (Chieti, Noubs, 1997) e vinto qualche Premio, l’ ultimo è stato quello conferitogli dall’ “Istituto Italiano di Cultura di Napoli.” (2019) Ricercatore sonoro (rumori, parole e musica) è istruttore di Hata Yoga e tiene Workshop di scrittura creativa con i Tarocchi.

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