“Tutto questo è abbastanza bello da essere mio” diceva da qualche parte il poeta francese Charles Baudelaire e può essere non di meno e in sintesi questo il senso dei concerti di Tolo Marton & Band, che, nell’ambito del “Rock Music Circus” di Silea, hanno riscontrato, nel corso delle serate del 10, 11 e 17 settembre un grande successo di pubblico. Sicuramente da questo punto di vista può essere utile, riflettere a manifestazione conclusa, come il “Rock & Roll Music Circus” sia stato un grande e auspicabilmente più che riproponibile evento. Fondamentale oltre che per ripercorrere la Storia del Rock a tutto tondo, per scoprire sonorità classiche e nel contempo estremamente incisive e moderne.
Tolo Marton e la sua acrobatica band si sono infatti prodigati, in un’ottica ben poco nostalgica, ad intrattenere il pubblico nella prospettiva di una ricerca musicale innovativa ed assolutamente poliedrica. Marton e i suoi musicisti, tra gli altri Andrea De Marchi, alla Batteria, Cristiano Schiabello e Massimo Fantinelli al basso (quest’ultimo anche nelle vesti di additional guitarist), Monica Guareschi, Paolo Borin alla voce, Andrea De Nardi alle tastiere, hanno saputo infatti ripercorrere i momenti più significativi della storia del Rock , nella prospettiva della reinvenzione creativa, metabolizzando gli standard di questo genere in una fusion di assoluta efficacia, finalizzata a celebrare all’insegna dello sconfinamento tra più generi l’universalità della musica.
Il senso del Cross over musicale proposto dalla Band si è infatti concretizzato, psichedelicamente parlando, nella creazione di autentici corridoi sonori in cui il repertorio di Rory Callagher e quello di Jimi Hendrix, così come quello dei Led Zeppelin e degli Who, si sono confusi attraverso sonorità acide e allo stesso tempo morbide, senza escludere nessun genere, compresi gli sconfinamenti funambolici tra country, Jazz’in e musica classica. Proponendo un Jimi Hendrix di vibrante emozionalità espressiva, a partire da: “HeyHeyJoe” in estemporanea versione italiano-talking, sino a “Little wing”, vero gioiello di modulazioni intense, asimmetriche e assolutamente personali, senza i fronzoli di quella di Eric Clapton, che l’ha a suo tempo appesantita con un introduzione di chitarra, che rispetto alla complessiva versione del brano finiva lì, nel massimo rispetto della pur magistrale esecuzione del brano, quella pretenziosamente orchestrale di Sting (senza nulla togliere alla memoria del grandissimo maestro Gil Evans).
Stessa cosa dicasi per il pianeta Who, in cui il sogno ribelle dei Mods inglesi si è rimaterializzato in una “My Generation”, ma con sonorità di ben più ampio respiro, volte a rievocare i migliori spezzoni della carriera cinematografica della band londinese, facendoci rivivere momenti in bilico tra i film “Quadrophenia” e “Tommy”. Con assoli nei quali Marton ha volutamente desacralizzato le monotonalità “skiffle” (variante inglese del Rithm & Blues americano) pestando duro sugli acuti distorti della chitarra. Trascendendo tra un “Pinball Wizard” e un “Im free” la secchezza, straordinaria, ma a volte monocorde ed essenziale delle mitiche sonorità degli Who.
Lo stesso dicasi per le rivisitazioni elettroacustiche del repertorio di Rory Callagher o per quelle dei Led Zeppelin, dove a farla da padrone è stata la voce di Monica Guareschi, quasi un mantra in “Baby I’m gonna y live you”. Come, non di meno in “Woodstock” e “California”, o nella personalissima interpretazione dei brani di Janis Joplin: “Mercedes Benz” e “Move Over. “Soul Sacrifice” e “Samba pa-ti” di Santana, evocano delle atmosfere sciamaniche, che, consapevole tributo al maestro Carlos, hanno dato la possibilità di orientare il repertorio, previe rivisitazioni di rito del repertorio di Simon e Garkfunkel, nell’ambito della musica italiana.
Da: “Vecchio Frack” di Domenico Modugno a “Ma che colpa abbiamo noi” dei Rockes del grandissimo Shel Shapiro, non senza il vertiginoso tributo alle colonne sonore di Ennio Morricone, passando per Lucio Battisti: “Non è Francesca” e i “Giardini di Marzo” e I Rockes di Shel Sapiro: “Ma che colpa abbiamo noi” e “C’è una strana espressione nei tuoi occhi” rivisitate con effetti sinuosi ed energici. All’insegna per concludere riprendendo la frase baudelairiana di inizio articolo, e in riferimento al pianeta sonoro di Marton & Band, tutto questo è abbastanza bello da essere nostro.