Termina oggi con il terzo capitolo la storia “Claudio, fiore tra i chiodi” di Enrico De Zottis


Ma poi, nei primi anni Novanta, arrivò un barlume di luce in mezzo a quella notte infinita. “Claudio, c’è un bando. Fondi europei. Un finanziamento per le nuove imprese”. Tutto merito del marito di Chiara.

Eh sì, a volte aiuta avere un cognato commercialista! Fu un’illuminazione. La possibilità di creare qualcosa di mio. Qualcosa che fosse solo mio, un segno tangibile della mia esistenza, del mio valore. Un riscatto. Verso la società che mi aveva rifiutato. Verso un mondo che mi aveva ferito. Forse, perfino verso i miei genitori. Mi ci buttai a capofitto. Corpo, anima, tutto. Notti insonni passate a studiare, a fare calcoli, a disegnare progetti. Il mio salone. Il mio sogno. La mia vita. Una nuova nascita, in questa terra che mi aveva creato e poi rifiutato.

E il resto, come si dice, è storia. La fine del secolo ci ha trovati con quasi una decina di saloni. Non solo in Veneto, ma anche in Lombardia ed Emilia-Romagna. Claudio S. è diventato un nome, un marchio. Quella sensibilità che mi avevano rinfacciato, quel dolore che avevo sentito così profondamente, non mi aveva distrutto. Anzi. Mi aveva dato una forza inaspettata. La forza di capire le persone, di ascoltarle con un’empatia che solo chi ha sofferto può avere, di renderle belle. Fuori e dentro.

Negli anni Novanta, quando le cose hanno cominciato a girare per il verso giusto, quando la paura dell’AIDS ha iniziato ad attenuarsi un po’, quando la gente ha iniziato a capire, anche se solo un po’, è stato come rinascere. Ricordo le prime volte che sentivo di poter camminare per le strade di Treviso o di Padova senza sentirmi sotto la lente d’ingrandimento, senza l’impressione che ogni sguardo fosse un giudizio. Non avevo più bisogno di tenere bassa la voce quando parlavo al telefono. Non dovevo più guardarmi intorno per sicurezza prima di abbracciare un amico, di stringere la mano a qualcuno che sentivo vicino. Era una piccola libertà, una conquista quotidiana, ma era immensa. Sentire che potevi esistere, respirare, senza dover nascondere una parte di te, era incredibile. Un’aria diversa, più leggera. Come un profumo di fiori che si fa strada tra il ferro arrugginito.

Mi piaceva pensare che fosse perché la cultura stava cambiando, evolvendo…ma poi ho dovuto essere onesto con me stesso e riconoscere che, anche se la cultura stava effettivamente mutando poco per volta, non era per quello che ora tutti mi salutavano e mi rispettavano: era perché avevo avuto successo e fatto i soldi, ero diventato “uno che gà fato i schèi”.

La vita sa essere strana, ti fa fare giri della morte per riportarti al punto di partenza, o quasi. Dopo tanti anni, quasi per gioco, su un social network di quelli che ti fanno credere di poterti collegare con il mondo intero, ho ritrovato Federico. Il mio primo amore. Gli ho scritto, quasi senza pensarci. E lui ha risposto. Ora ci sentiamo. Non è più l’amore di allora, no, è diventato qualcosa di diverso, di più maturo e sereno. Siamo amici, ci scambiamo consigli e battute.

I miei genitori… beh, i miei genitori ormai non ci sono più. Se ne sono andati qualche anno fa. Ma negli ultimi tempi, soprattutto grazie all’arrivo dei figli di Chiara, i miei nipoti, le cose si erano un po’ riavvicinate. Non c’è mai stata una vera scusa, un ‘ci dispiace’, ma c’era una forma di pace, di accettazione silenziosa. E io, i figli di Chiara, li adoro smodatamente. Li vizio senza vergogna, non mi tiro mai indietro. Mi chiamano zio Claudio, ed è una musica per me. Ogni tanto, la più grande, Valeria, una ragazza vivace e piena di creatività, viene da me con un nuovo taglio di capelli, magari ispirato a qualche video su internet. E mi guarda con quegli occhi grandi e mi chiede: ‘Zio, zio, guarda, ti piace?’ E io, sorridendo, le rispondo: ‘Sì, tesoro mio, mi piace. Ma quel taglio di capelli lo facevo alle donne già nell’ottantaquattro!’. Poi ridiamo insieme. Tutto ritorna sempre, come un cerchio che si chiude.

Pensate, proprio a questo proposito, che qualche anno fa ho comprato alcuni campi dove viene coltivata l’uva per il prosecco, proprio nell’area dove tutto era cominciato anni fa…e il bello è che a me il prosecco neanche piace più di tanto, ma i miei consulenti mi hanno detto che è per differenziare il portafoglio di investimenti, e io ho seguito il loro consiglio. Come gira il mondo, eh?…chissà come avrebbero reagito gli anziani della mia infanzia sapendo che ettari e ettari di campi di prosecco ora sono proprietà di un… va bé, ci siamo capiti.

Ogni tanto, se il lavoro me lo permette, partecipo a qualche evento delle comunità LGBT, soprattutto a Padova o a Bologna. Non sono un attivista sfegatato, non mi sento un simbolo, no. Ma mi piace vedere come le cose sono cambiate. Perché, parliamoci chiaro, ragazzi, oggi in Italia, e anche qui, nel nostro Veneto, le cose sono anni luce rispetto a quando io, un ragazzino di vent’anni appena fatti, venivo cacciato fuori di casa nella pioggia. Senza un tetto. Senza una parola buona. Solo perché ero ‘diverso’. L’aria che si respira oggi è un’altra. C’è più libertà, più accettazione, più consapevolezza. Certo, la strada è ancora lunga, non illudiamoci. Ci sono ancora muri da abbattere, pregiudizi radicati. Ma il seme è stato piantato, e sta crescendo. E io, con la mia storia, spero di aver dato un piccolo contributo a quella crescita. Perché, in fondo, non è mai facile essere un fiore tra i chiodi.

Ma è possibile.

Enrico De Zottis
Enrico De Zottis Nato a Venezia nel 1987 e cresciuto a Mogliano Veneto, da oltre un decennio si occupa professionalmente di Gestione delle Risorse Umane presso aziende multinazionali. Ad oggi vive e lavora a Lione (Francia). Nel tempo libero si dedica allo studio di tematiche socio-economiche, oltre che alla musica e al trekking. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a Padova e un Master in Analisi Economica a Roma.

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