Secondo capitolo della storia “Claudio, fiore tra i chiodi” di Enrico De Zottis


E poi… Federico. Federico… Un mago con le forbici, che trasformava le teste in opere d’arte, e un mago ancora più potente con quella sua voce roca, calda, che mi entrava dentro e mi toccava il cuore. Più grande di me, con un’esperienza, un fascino che mi incantava, che mi faceva sentire al sicuro.

Il primo vero innamoramento. Di quelli che ti stravolgono il mondo, che ti fanno sentire ogni fibra del tuo essere, che ti tolgono il sonno e l’appetito, che ti fanno vivere per un suo sguardo, per una sua parola. Poi, un giorno, come un fulmine a ciel sereno: ‘Parto per l’America. Un’opportunità che non posso rifiutare.’ E il cuore? Il mio cuore andò in frantumi. Il primo vero cuore spezzato. Di quelli che ti fanno credere che non ti riprenderai mai più, che il mondo è finito, che la felicità non esiste. Ma poi il mondo non finisce, ti riprendi dal dolore e ti accorgi che la vita deve andare avanti, e devi affrontare la realtà.

E io con la mia realtà dovevo fare i conti. Tornai a casa, con quel dolore addosso e una certezza in più. Non potevo più nascondermi. Ricordo che pensavo con angoscia a che parola avrei fatto meglio ad usare: omosessuale? Gay? Diverso?… Ma dovevo dirlo. E così feci. Fu una cena fredda, più fredda dell’inverno veneto. La tavola imbandita, ma senza il ticchettio delle forchette. Dissi la verità, tutta d’un fiato, come se togliessi un cerotto. E mio padre… Non disse una parola. Non un urlo, non un’altra delle sue minacce. Si alzò. Andò in studio. Tornò con un rotolo di banconote legato da un elastico. Centomila lire, forse duecentomila. Me lo mise in mano. Freddamente. Senza guardarmi negli occhi. Senza un gesto, una carezza, un addio. Solo il suono della carta stropicciata. Poi mi indicò la porta. Non c’era bisogno di parole. Il messaggio era chiaro, più forte di qualsiasi urlo. Fuori. Era una sera di novembre, e fuori pioveva a dirotto, una pioggia gelida che ti entrava nelle ossa. Presi la mia piccola borsa, quella che mi ero preparato nei giorni precedenti quasi avessi avuto una premonizione del mio destino. Un ultimo sorriso a mia sorella Chiara, che mi guardava in lacrime. E uscii.

Per alcuni mesi fui un vagabondo, con sulla testa un tetto sempre diverso. Ho dormito sui divani a casa di amici della scuola. Ho scoperto la generosità inaspettata di chi mi aveva appena conosciuto, e l’imbarazzo di chi non sapeva come gestire la situazione. Era un peregrinare continuo, un limbo. Soprattutto, nessuno mi sapeva spiegare cosa avevo fatto di male. Solo il gelo e la costante sensazione di essere di troppo. Ma poi, un giorno, con altri due ragazzi della scuola, riuscii a trovare un piccolo appartamento in affitto a Treviso. Un bilocale, poca cosa, soprattutto in tre, ma era nostro. Il mio primo vero spazio. La mia prima vera libertà, conquistata a caro prezzo. L’unico contatto familiare rimasto? Chiara. La mia ancora di salvezza. La mia bussola in un mare in tempesta, che non mi ha mai fatto sentire solo, anche quando tutta la mia famiglia mi aveva voltato le spalle. Lei era la mia vera casa.

Era il 1984 quando per la prima volta sentii parlare dell’AIDS. All’inizio, un’ombra. Lontana. Notizie dai giornali che parlavano di ‘quelli là’, come se fosse una piaga che non ci avrebbe mai toccato, qui, nel nostro Nord indaffarato. Si cominciava a mormorare di una ‘malattia dei gay’, un’epidemia che arrivava dagli Stati Uniti. Ricordo i titoli dei giornali, all’inizio piccoli, poi sempre più grandi, più allarmati: ‘Il cancro gay’, ‘Peste del Duemila’. Ci arrivavano le prime voci, notizie frammentate, quasi leggende metropolitane. ‘Hanno trovato il virus’, dicevano. Ma noi, nella nostra bolla, pensavamo: ‘Non noi. Non qui.’

Poi, l’ombra ci ha trovati. Tangibile. Devastante. È stato come un’onda scura che si è abbattuta sulla nostra comunità, quella che avevamo costruito con tanta fatica, mattone dopo mattone, a Padova, a Milano, a Bologna. Una telefonata, un nome. E poi un altro. E un altro ancora. Le voci affannate di amici comuni che mi dicevano: ‘Hai sentito? Dicono che ha la polmonite.’ O ‘L’ho visto, è dimagrito tantissimo, non sta bene.’ Ogni squillo improvviso del telefono era una lama ghiacciata. Una paura che ti si attaccava addosso come il sudore freddo, un’ansia costante che ti bloccava lo stomaco. La paura per noi stessi, per la nostra salute, per chi avevamo amato, per chi avevamo solo sfiorato.

Arrivarono le prime notizie dei miei amici malati. Di quelli che erano come fratelli, compagni di viaggi e di sogni di vita. E poi le morti. Bernardo, uno degli uomini più divertenti che abbia mai conosciuto, che sapeva far ridere anche le pietre. È stato il primo del nostro gruppo a andarsene. Ricordo il suo sorriso, spento dalla malattia, ma ancora lì, come a rassicurarci. E poi Alessandro, che non sapeva fare male a una mosca, neanche volendo, con la sua dolcezza. Eppure lo tenevano isolato, quasi fosse un pericoloso criminale. Moriva da solo, praticamente. E Massimiliano, con quei capelli a boccoli scuri che avevo sempre cercato a fatica di insegnargli a pettinare come Dio comanda, e che ora non c’erano più… Era come se ogni giorno, uno spettro invisibile portasse via un pezzo di noi, della nostra gioventù, delle nostre vite.

La paura era ovunque. Non solo la paura della malattia, ma la paura del giudizio. Ricordo che nessuno voleva avere vicini gli omosessuali, men che meno sul posto di lavoro. C’era chi cambiava marciapiede se ti incrociava. Ti guardavano come se avessi la peste bubbonica. ‘Stai lontano’, ti dicevano gli sguardi. ‘Non toccarmi.’ Il pregiudizio si era fatto ancora più duro, più tagliente, giustificato da una malattia che non capivano, che non volevano capire. Era il periodo più buio, un inverno dell’anima che sembrava non dovesse finire mai. Sembrava che la fine del mondo fosse dietro l’angolo, e noi, i ‘diversi’, eravamo i colpevoli. I capri espiatori. Ogni tosse, ogni febbre, ogni piccolo malessere ti faceva pensare: ‘È arrivato il mio turno?’ Ero terrorizzato.

Giorno e notte.


Il terzo ed ultimo capitolo di “Claudio, fiore tra i chiodi” verrà pubblicato sabato 05/07/2025

Enrico De Zottis
Enrico De Zottis Nato a Venezia nel 1987 e cresciuto a Mogliano Veneto, da oltre un decennio si occupa professionalmente di Gestione delle Risorse Umane presso aziende multinazionali. Ad oggi vive e lavora a Lione (Francia). Nel tempo libero si dedica allo studio di tematiche socio-economiche, oltre che alla musica e al trekking. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a Padova e un Master in Analisi Economica a Roma.

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