La memoria è un dono. A volte sgradito, impedisce ai ricordi di conformarsi al nostro piacere. A volte necessario, ci obbliga alle responsabilità. In generale però aiuta ad affrontare la realtà, segnala opportunità e rischi, consente di dare ragioni alla vita.
La memoria poi è un valido antidoto ai pensieri “di pancia”, alle decisioni affrettate, all’esplosione dei sentimenti perché rammenta gli errori, i dubbi, le incapacità.
Questa premessa mi serve assai. Voglio infatti rivolgere lo sguardo a Elly Schlein, la Segretaria del Partito Democratico. E per tentare di capirne le scelte e le volontà mi serve moltissimo la memoria.
Arriva al PD sconosciuta e quasi estranea a strutture e tradizioni organizzative e di potere di quel partito.
Ma arriva forte dell'”ultima spiaggia“. Appare, cioè, come l’occasione necessaria per superare il renzismo prima di diventare ininfluenti e insignificanti.
Attenzione. Non per superare Renzi. Era già destinato ad essere sconfitto ed i risultati elettorali lo avevano annunciato da tempo. Bisognava però superare il modo di essere di un partito piatto, senza nome, senza un numero significativo di aderenti e sempre più destinato alla soffitta della politica rispetto ai sogni del possibile destino.
E l’entrata è plateale. Perde nei voti del partito ma non ne esce marginalizzata. Vince tra la gente alle primarie. Senza discussione. Una valanga di voti.
E tutta la prima fase di governo è di freschezza esterna, di presenza sorridente e giovanile, di parole meno camuffate dal politichese, meno nascoste nei significati.
Accanto c’è però la prudenza. Niente rotture, niente anatemi per ciò che c’era. L’esercito è piccolo ma va portato tutto (o quasi) alla meta. Ecco, quindi, la scoperta attenta e curiosa di un partito che annaspa ma c’è, che ha nome e poco più, che però sembra disponibile a non ammalarsi più di riformismo di facciata, inefficace e spesso rubato alla controparte.
E qui comincia la strada nuova. Il percorso diverso. Elly Schlein è conscia di non poterlo “rivoltare come un calzino”. Sa che non può cambiare quando non c’è ricambio evidente. Ed allora modifica solo la parte apicale del PD.
E fa la prima scelta controcorrente. Sapendo di essere debole “dentro” e di avere una struttura di partito che annaspa si affida alla diversità dei contenuti della politica ed ai suoi risultati evidenti: i voti.
Elezioni locali ed Europee le danno ragione. E bloccano le critiche più o meno ingenerose o opportunistiche che miravano a sminuirla, a farla diventare simpatica ma inutile, insomma a cancellarla dalla politica, ad eliminare l’essere alieno.
Devo dire che due personaggi della politica lo capirono: il primo, e subito, fu Dario Franceschini che disse “è l’ultima speranza per il PD” ed il secondo molto più recentemente fu proprio Matteo Renzi che tutto è fuorché stupido e si intende di poteri.
Ma i voti ed i risultati elettorali ottenuti sono stati una condizione, non una finalità. Perché l’obiettivo è più vasto. Ricondurre il Partito Democratico a quella dimensione progressista e riformatrice che nel tempo aveva abbondantemente rischiato di perdere.
La fatica della politica qui diviene evidente ma comincia a pagare. Il percorso si esplicita. Riprendere i rapporti con la base sociale perduta uscendo dalla ZTL della società garantita. Ed ecco le campagne per la sanità pubblica, per la scuola pubblica, per il lavoro, contro le discriminazioni e così via. Campagne in cui la dimensione della comunicazione deve fare i conti con una struttura organizzativa fragile se non addirittura a volte inesistente. Si riprende cioè la parola, il contatto, la relazione. Non si è ancora parte ma è un passo avanti.
E questo si incrocia con il lavoro parlamentare, con la costruzione delle proposte di “merito”. Qui c’è un passaggio originale e particolare del nuovo PD. Non si vuole infatti ritornare alle parole d’ordine classiche del socialismo ottocentesco. Non si mira alla protesta per la protesta, non si inseguono i populismi grillini. E non si lascia per strada il riformismo socialdemocratico di antica e onorata memoria. Anzi.
Si sceglie però di riempirlo di contenuti e soprattutto si decide che va espresso con radicalità. Perché la radicalità può e deve essere riformista. All’inizio la ripresa delle parole “chiave” porta qualche fatica in più, qualche sconquasso. Poi si capisce che serve. Che in una società della comunicazione che vuole brevità e chiarezza non si può tergiversare. Il riformismo radicale è l’espressione che la Schlein adopera per trattare con il mondo. E soprattutto per lanciare due messaggi.
Il primo al Sindacato è esplicito. Dice: “siamo tornati”. E con tutti i suoi limiti il sindacato ed in particolare la CGIL (ma non solo) rimane una concentrazione irrinunciabile di intelligenze, di volontà, di condizioni fondamentali per la difesa dei lavoratori.
L’altro è a chi non vota, a chi non partecipa, a chi è lontano, a chi si sente emarginato, non difeso, costretto ad essere invisibile per salvarsi. È una partita rischiosa ma che va giocata questa che riguarda il “non voto”. Una opportunità ingrata e insicura che però va spesa con coraggio. Ed anche spesso una scelta impopolare nel partito. Alcuni, infatti, pensano che è così facile controllare il consenso se i votanti sono solo non più del 50%, mentre lavorare fuori da questi confini è insicuro, forse inutile, di certo gravoso di fatica e impegni.
A questo punto si riprende in pieno il tema della “base sociale” dell’essere progressista. Il lavoro. E lavoro vuol dire occuparsi della vita del lavoratore. Tutta, dalla scuola alla sanità, dalla casa all’welfare. E qui ricompare fortemente il tema degli ascensori sociali che impediscono di far politica senza una seria valutazione del “merito”. Radicalità riformista, appunto.
Accanto la politica dei diritti, contro la violenza di genere, per le nuove frontiere della scienza, per le nuove comunità. Fino al punto di rischiare in un popolo conservatore per gli “altri” e riformista per “se” come quello italiano le battaglie per il diritto di essere italiani nascendo in Italia e così via. Battaglie piene di contraddizioni come lo stesso referendum sulla cittadinanza dimostra.
Allora il referendum sul lavoro è stato un altro indispensabile tassello. Per la collocazione e la dimensione del Partito Democratico. Lo sanno bene i conservatori del PD che oggi attaccano dicendo che si poteva evitare. Perché non è così. Era ed è un tassello della ricollocazione politico culturale del PD.
Così come altrettanto importante è stata, in un altro campo, la manifestazione per Gaza. Ha rotto gli indugi, ha cambiato gli animi, ha ricomposto famiglie separate. Ha ripreso la “pace” come obiettivo irrinunciabile sopperendo alla debolezza dei messaggi istituzionali. E la pace è parte fondamentale del nostro quotidiano e della nostra storia.
Più prudenza si è usata sul conflitto Russia Ucraina. Indicando sempre la responsabilità dell’invasore, la Russia, ma non cessando mai di richiamare l’assenza dell’Europa da qualsiasi tavolo di pace.
Così, attraverso questo breve racconto, si possono capire le scelte della Segretaria del Partito Democratico e soprattutto si può ragionare su queste scelte.
Troppo parziali? Forse se lette una per volta. Troppo deboli? Può essere se non si vuole considerare la struttura del suo Partito.
Ma nell’insieme esplicite e misurabili. Per dare una modernità riformista e radicale, consapevole e chiara ad un Partito Democratico che aspira a rappresentare i progressisti del nostro Paese mantenendo una memoria vera. L’alleanza di Centro-Sinistra, il Campo Largo, come lo si chiama, sta qui. Con un PD che ha un significato per la sua connotazione e il suo essere sociale. Senza volontà egemoniche inutili e con quel “testardamente unitari” che può portare lontano.
Siamo tutti d’accordo che al PD serviva una leaderschip “movimentista” che rassicurasse sui valori storici della Sinistra, su questo Elly Schlein è una buona interprete. Quanto buona lo si misura sul piano dei voti che però non hanno tutti lo stesso peso: europee ed amministrative rispondono a logiche diverse: le prime più legate all’appartenenza; le seconde più condizionate dal candidato. E le politiche? In una macro analisi, brutalmente generalizzata nel tempo e nello spazio geografico, si può dire che quando la gente sta male vota a destra; quando sta bene vota a sinistra. Quando sta male è più attenta al portafoglio; quando sta bene è più attenta ai valori ed ai principi. – Le elezioni politiche, quindi, premiano chi sa trasmettere con più credibilità la fiducia in un futuro migliore per… la pancia! (V. Trump & C.). Tenuto conto che una scuola migliore, una sanità migliore, un salario giusto, ecc. sono tutte cose che “costano”, qual’è la strada del PD per risanare i conti dello Stato e migliorare il welfare? – Ecco, pragmaticamente, credo che il nodo stia tutto qui: se le risposte saranno convincenti la Schlein avrà fatto un gran bene al PD ma soprattutto al Paese perché una deriva etica come quella che stiamo vivendo è avvilente.
Sono molto d’accordo. Come TUTTI quelli minimamente interessati alla politica hanno potuto vedere (a sinistra come a destra – basti pensare all’astio rancoroso con cui i giornali della destra trattano Elly Schlein) lei ha rappresentato veramente “l’ancora di salvezza” per un PD destinato alla scomparsa, ed è strano che questa “memoria” non sia condivisa da tutti all’interno del partito. Secondo me il nodo che dovrà affrontare (ma mi rendo conto della difficoltà) sarà quello del nome, perché Partito Democratico non significa niente, oltre che dare un senso di “americanismo” che, soprattutto adesso, è veramente fuori luogo per un partito della sinistra europea.
É un evidente tentativo di riesumare ciò che la storia ha dimostrato essere fallimentare.
Il PD nasce dalla volontà di creare un partito multiculturale riformista e progressista. Mettere assieme chi veniva da storie culture diverse ma disponibili a farne sintesi, per un interesse superiore. Veltroni aveva questo come obbiettivo quando fondò il PD. Era un tentativo arduo ma non impossibile. La mutazione fatta dai comunisti italiani dal 1945 al 2007 pareva essere approdata ad una politica riformista di stampo socialista. Certo con alcune contraddizioni, comprensibili se si capisce da dove partivano i comunisti. Un partito il PD che aveva suscitato interesse ma anche alcune perplessità che non avevano impedito di raccogliere il 32% alle politiche, ( unico risultato positivo in una elezione politica nazionale del PD). Poi c’è stata la vittoria azzoppata nelle elezioni del 2013 con segretario Bersani, poi dimessosi con l’elezione contro ogni previsione di Renzi. ( sullo slogan “Rottamazione”). La sua ascesa e il consenso del 41% alle europee, hanno scatenato una guerra senza quartiere all’interno del PD. Guerra che si è esplicitata con il referendum costituzionale con le indagini giudiziarie su Renzi e su tutti coloro che gli erano vicini, arrivando ad andare in procura come persone informate sui fatti di Bersani e Bindi nemici giurati del ex sindaco di Firenze. ( Sappiamo tutti come è finita, nessun luogo a procedere assoluzioni piene. Un PM sconfessato dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale per il suo operato e andato in pensione senza nessuna punizione). Oggi abbiamo un PD che ha cambiato pelle, non ha più nulla delle scelte che ne avevano determinato la nascita. Dovrebbe cambiare nome ma forse non ne ha la forza per farlo. Diciamo che quell’alleanza non c’è più e che é più simile al vecchio PCI che ad un partito riformista d’ispirazione socialista. Legittimo ovviamente. Sa anche che da temi non generali si perdono i referendum come successe nel 1985. Sa anche che se vuole tornare al governo deve farlo trovando alleanze non solo con AVS e 5*. Finché la Schlein sta all’opposizione la sua linea politica, può continuare ad essere populista ma se andrà al governo sa che quella linea dovrà cambiare. Esattamente come fecero i comunisti negli anni 90 e fino al 2014.