Un appuntamento elettorale va sempre guardato con attenzione.
Va capito, contestualizzato nella realtà in cui si vive, verificato nel suo senso e nelle prospettive che apre.
Una parte corposa del popolo italiano ha un giudizio negativo proprio sul concetto di partecipazione per cui sceglie di non votare, di non esserci.
Lo fa per ragioni diverse ma spesso abbastanza facilmente spiegabili.
Ritiene quell’appuntamento con le schede elettorali inutile o offensivo.
Inutile quando pensa che non serva a cambiare lo stato delle cose presenti, sia quindi una ritualità superata. Offensivo quando il suo giudizio sugli “altri”, quelli che il potere lo adoperano e lo posseggono è formato e preciso: sono nemici che falsamente ti offrono la possibilità di “giocare con loro” ed in realtà hanno già deciso tutto.
Tu non conti niente.
La replica a questi modi di pensare è differenziata.
Si va da chi esalta il diritto dovere del voto in termini culturali e storici a chi invece richiama come, senza votare, si “lascia la palla” a chi usa le Istituzioni ed è eletto da una minoranza del corpo elettorale.
Io sono convinto che non si debba mai lasciare libero il campo.
Ho imparato dalla vita come non partecipando si regali l’iniziativa all’avversario.
Ma questo convincimento da solo non basta.
La gente chiede ragioni, vuole esempi, è infastidita da chi “parla bene e razzola male” e spesso trova che i grandi discorsi non abbiano nulla a che fare con la realtà di ogni giorno.
Quindi occorre quella che chiamo la “pratica della realtà”.
Cioè l’empatia (mettersi realmente nei panni degli altri), la verità come modo di comunicare, la contaminazione dei modi di essere come reale conoscenza della vita e dei suoi problemi.
Non è facile.
Spesso la politica è fatta da garantiti che hanno conquistato da tempo una condizione di esistenza abbastanza o molto buona.
Basti ricordare le polemiche sugli stipendi dei parlamentari.
Spesso però il rifiuto della partecipazione e del voto giunge ad estremi realmente incomprensibili.
E questo accade quando si avverte che anche uno spostamento di pochi voti consentirebbe una trasformazione di un pezzetto (piccolo ma importante) di mondo.
Premessa questa troppo lunga?
Spero di no.
Infatti il tema di oggi è il voto al Referendum dell’8 e 9 giugno di quest’anno.
Ed una cosa mi appare immediatamente chiara: riguarda tutti, nessuno escluso ed interviene immediatamente sulla realtà modificandone parti corpose.
Cosa voglio dire?
Che non c’è la mediazione della rappresentanza politica.
Che si decide con quella scheda, che si cambia realmente e subito se si raggiunge la maggioranza semplice dei votanti e dei voti.
Lo avevano voluto i Padri Costituenti sapendo che in questo modo completavano una democrazia che non volevano adoperasse solo la delega.
Poi a volte fu usato male e a volte bene.
Ricordate aborto e divorzio?
Il referendum contò immensamente.
In altri casi non fu compreso o amato.
La domanda che spesso si fa è semplice e vera.
E questa volta perché serve andare a votare senza che ciò comporti richiami ai diritti e ai doveri di un cittadino?
La risposta, come a volte accade sta nel titolo: il lavoro.
Infatti questa volta parliamo di vita quotidiana, di opportunità, di condizioni dell’esistenza di ciascuno di noi.
Perché il lavoro ha il diritto di essere una parte bella della nostra vita.
Non può e non deve essere vissuto solo come un obbligo per il salario.
Il lavoro rende autonomi, permette l’orgoglio, consente di crescere professionalmente, costruisce relazioni e rapporti, ti fa insomma diventare un “essere sociale”.
Esci dall’individuo per diventare attore della realtà.
Ma allora il lavoro va protetto, gestito, amministrato, cambiato, messo in discussione, coltivato.
Ed il confronto dei lavoratori è con due altre “parti sociali”: chi il lavoro lo da e chi fissa le sue regole.
E se è chiaro che il lavoro è così importante allora è evidente che le decisioni sul lavoro sono molto importanti per tutti noi.
Quindi non possiamo non partecipare perchè il voto decide sulla nostra pelle.
I punti sono chiari.
Il primo referendum propone votando “si” di fermare i licenziamenti illegittimi privi di giusta causa o giustificato motivo.
Il secondo referendum propone, votando “si” di portare più tutele per chi lavora in caso di licenziamento illegittimo.
Aiuta il lavoratore a non essere ricattabile.
Il terzo referendum vuole, votando “si”, permettere che molti incarichi precari possano essere non convenienti puntando invece ad un lavoro più stabile.
Il quarto referendum agisce su un terreno drammatico: quello della sicurezza nel lavoro.
Infatti votando “si” si estende la responsabilità in questo campo anche all’impresa appaltante ed in questo modo si incentivano controlli e tutele.
Infine il quinto referendum permette, votando “si” di accorciare da 10 a 5 anni il tempo necessario per un lavoratore straniero che già opera nel nostro Paese per far domanda di cittadinanza italiana.
Non è solo un atto di civiltà.
È un modo per eliminare le precarietà che spesso sono causa di instabilità e violenza.
Allora tutto mi sembra chiaro.
Votare al referendum è una occasione per cambiare, per inviare un messaggio a chi governa, per costruire da subito una realtà nuova.
Ed è un diritto.
E tra i tanti doveri che ogni giorno abbiamo vale la pena di non lasciarci sfuggire un diritto: il diritto di scrivere “si”.

Maurizio Cecconi
Veneziano, funzionario del PCI per 20 anni tra il 1969 ed il 1990. Assessore al Comune di Venezia per quasi 10 anni è poi divenuto imprenditore della Cultura ed è oggi consulente della Società che ha fondato: Villaggio Globale International. È anche Segretario Generale di Ermitage Italia.

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