Accade che un comune cittadino decide di concedersi un “grande viaggio”. Decide cioè di dare il proprio contributo, ancorché infinitesimale, al collasso ecologico del Pianeta (lungo volo aereo, lodge per ricchi, altri consumi vari, ecc.). Poi, un bel giorno, nel bel mezzo della vacanza, sulle sponde del Lago Nakuru, in Kenya, a migliaia di chilometri da casa, si trova al cospetto di un’upupa che cerca vermi e larve nella savana. E accade che l’upupa gli si rivolga in veneto, dicendogli: “Ciao Bepi, anca ti qua? Pensa che picinìn che el xe el mondo”.
Proprio così; sembra incredibile, ma quell’upupa parlava veneto. Non solo, ma a circa un mese di distanza avrebbe volato nella campagna di casa, dopo aver affrontato un volo migratorio pari a quello affrontato dal Boeing 847 che avrebbe riportato a casa il “comune cittadino”.
Tutto questo è accaduto a me, appena un mese addietro e la ragione per cui sono qui a parlarvene, cari lettori (sempre i soliti sette), non è per millantare il “grande viaggio”, ma per dirvi altro e parlarvi del piccolo prodigio vivente chiamato Upupa e che di nome scientifico fa Upupa epops.
Ma sì, dai, la conoscete: chi non ha studiato il Foscolo, con i suoi Sepolcri e con L’upupa che si affaccia alle orbite di un teschio umano (quadretto deliziosamente poetico, quest’ultimo).
Va detto innanzitutto che la bellissima Upupa, specie faunistica considerata con il Martin pescatore e con il Gruccione un “relitto avifaunistico terziario” e dunque una specie diffusa in climi caldi, sopravvissuta ai mutamenti avvenuti nel Quaternario, era in passato molto frequente. Dove il passato cui ci si riferisce è il Novecento e l’ambiente è quello della campagna veneta, con i poderi, l’allevamento bovino famigliare e i letamai, fumanti durante le giornate gelide dell’inverno.
L’Upupa, infatti è un insettivoro e come tale non tollera la chimica dell’uomo, che distrugge le sue fonti alimentari. Non a caso il becco è lungo, sottile e arcuato ed è stato modellato dall’evoluzione proprio per consentirle di frugare nel terreno molle e nelle deliziose fatte di mucca (le popolari buazze), alla ricerca di lombrichi e di larve di mosca.
Proprio per questa ragione, per il fatto cioè di eliminare insetti fastidiosi già allo stato larvale, l’uomo avrebbe dovuto esserle riconoscente e garantirle una solida tutela. Invece le cose sono andate diversamente, perché l’uomo (e dunque noi tutti) esprime speciali attenzioni non già verso l’ecologia, che gli suggerisce le regole base per un corretto rapporto con il proprio ambiente, bensì verso l’economia, che gli consente di arricchirsi e di distruggere l’ambiente, gli altri organismi viventi e, ovviamente, se stesso.
Così, tra i primi anni Ottanta e i primi anni Duemila, l’Upupa è letteralmente scomparsa dalle nostre campagne e di lei sembrava fosse stata smarrita ogni traccia.
Cose che succedono, ma tanto noi non ce ne accorgiamo. Nessuno di noi s’è accorto, ad esempio, che sono scomparse le averle, gli usignoli, i ramarri, i rospi, le rane verdi e rosse e tanti, tantissimi nostri “compagni di viaggio”, colpevoli soltanto di condividere con noi, “fuochisti della Locomotiva del Nordest”, l’habitat.
Poi, lentamente, timidamente, dopo decenni di assenza, ecco le upupe ricomparire, sugli orizzonti delle campagne del Veneto Orientale, su cui dilagano le ragnatele metalliche dei vigneti industriali del Prosecco. Il loro canto ritmato, un “uh-hù …uh-hù …uh-hù” ripetuto come un segnale misterioso e vellutato, è tornato a risuonare nelle atmosfere luminose e solitarie della primavera di maggio, a conferma che il furore della chimica agraria era andato attenuandosi.
Le loro nidiate son tornate ad affollare le cavità dei vecchi salici a capitozza o dei vecchi muri in cui nidificano e così i rari umani che sono in grado di leggere questi segnali ancestrali, hanno tirato un sospiro di sollievo.
Certo c’è voluto del coraggio a tornare tra noi, ma la Natura di coraggio e di tenacia ne ha e in misura che noi umani nemmeno riusciamo a immaginare.
Come sempre un piacere leggerti
Alessandro G.
(Uno dei sette)