A distanza di cento anni quella di Giacomo Matteotti appare, anche ai più disattenti, la figura più rappresentativa dell’opposizione al fascismo. Che, è bene ricordarlo, all’altezza del 1924 non era ancora diventato un regime totalitario.

Negli ultimi mesi sono intervenuto in almeno una ventina di occasioni pubbliche per parlare di Matteotti. Invitato da amministrazioni comunali, associazioni, università popolari. Al netto della ricorrenza del centenario della sua uccisione, sono stati tutti incontri molto partecipati e che mi hanno sorpreso per l’interesse che questa figura suscita ancora. Un interesse direi trasversale, che va oltre la militanza socialista e l’antifascismo.

Un personaggio non divisivo, si direbbe oggi, che in quegli anni era stato protagonista, suo malgrado di molte fratture all’interno della sinistra e destinatario di un odio feroce non solo da parte dei fascisti. Un po’ per la sua provenienza da una famiglia benestante, un po’ per essere un socialista riformista e, in fondo, troppo moderato, almeno agli occhi dei massimalisti e dei comunisti.

Al netto di queste considerazioni, l’uccisione del deputato di Fratta Polesine – che si era guadagnato sul campo i galloni di capo dell’opposizione parlamentare – costituisce un tornante decisivo nella storia d’Italia. Uno spartiacque che spinse il governo Mussolini verso una torsione autoritaria e poi totalitaria. Tutto cambiò dopo l’estate del 1924 e il discorso del capo del fascismo del 3 gennaio 1925. Grazie soprattutto a due fattori: l’adesione di pezzi importanti della borghesia italiana a quella che appariva l’unica soluzione possibile per evitare una deriva rivoluzionaria (peraltro del tutto remota) e l’incapacità di numerose figure dell’opposizione di leggere gli eventi di quei mesi. Mussolini vacillò pericolosamente anche all’interno del suo partito, ma non cadde. Gli organizzatori del rapimento e dell’omicidio di Matteotti erano uomini a lui vicinissimi, suoi sodali di vecchia data: riuscì ad allontanarli, almeno momentaneamente, separando le loro responsabilità dalla sua.

Qualche mese fa, ricordando la figura di Matteotti, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha giustamente sottolineato altri due elementi che solitamente vengono trascurati o per ignoranza o per convenienza: l’asservimento dello Stato liberale ormai agonizzante a un partito che utilizzava impunemente la violenza politica e la complicità – io direi corresponsabilità – della monarchia nell’intera vicenda: “Il rapimento, cento anni or sono, del Deputato socialista Giacomo Matteotti, a cui fece seguito la sua crudele, barbara, uccisione, fu un attacco al Parlamento e alla libertà di tutti gli italiani e rappresentò uno spartiacque della storia nazionale. La violenza che, da subito, aveva caratterizzato le azioni del movimento fascista, dopo le aggressioni ai lavoratori organizzati nei sindacati e nelle cooperative, contro le Istituzioni, dai Comuni si rivolse al Parlamento. Quell’assassinio politico assunse una peculiare portata storica e simbolica. Lo Stato veniva asservito a un partito armato che si faceva regime, con la complicità della Monarchia”.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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