DALLA SERBIA UNA SCOSSA CHE FA TREMARE DI NUOVO I BALCANI

Manifestazioni in Serbia

Cosa sta veramente accadendo in queste ore, confuse e contraddittorie, in Serbia? Quelle centinaia di migliaia di persone – mezzo milione dichiarano i promotori mostrando anche le immagini dei droni, centomila minimizza il governo – che sabato scorso hanno paralizzato Belgrado non può più essere derubricata a mera protesta studentesca. A sciame velenoso quanto velleitario dei disordini scoppiati quattro mesi fa a Novi Sad, dopo il crollo della tettoia della stazione ferroviaria, da poco ristrutturata, che provocò quindici morti e grande indignazione.

Gli studenti del capoluogo della Vojvodina scesero subito in sciopero, bloccando lezioni ed esami e chiedendo l’immediata severa punizione dei responsabili di una tragedia da loro imputata alla ormai insopportabile corruzione dilagante e all’inefficienza conclamata della macchina burocratica pubblica. I lavori di ammodernamento e manutenzione erano stati affidati, per la cronaca, a un consorzio di aziende cinesi, molto attive in Serbia grazie alla disinvolta politica di attrazione degli investimenti stranieri attuata da oltre un decennio dal presidente Aleksandar Vucic.

Dal 1 novembre scorso è stato dunque un crescendo ininterrotto di proteste, marce, sit-in, assemblee, a cadenza giornaliera. Talmente ripetitive (e tranquille) da non fare più notizia nell’Occidente distratto da ben altri scenari e problemi. Dapprima, l’onda giovanile si è limitata a Novi Sad, poi si è allargata via via alle principali città della Serbia.

Le dimissioni del capo del governo serbo Milos Vucevic e di un altro ministro, a fine gennaio, non sono bastate ad arginarla. Nessuno o quasi credeva, inizialmente, alla forza nascosta di un movimento senza veri capi e una strutturata organizzazione.

Gli studenti delle generazioni Z e Alpha vivevano il loro Sessantotto, scoprendo il piacere di ritrovarsi tutti insieme a sperimentare qualcosa di nuovo, il brivido della contestazione e dell’indignazione condivisa, in una società che li ignora e marginalizza, negando loro la speranza in un futuro dignitoso in patria. Basta con una vita grama, triste, fra affitti rapaci e servizi inesistenti. Basta a stenti e sacrifici, in cambio di niente.

Il lavoro, quando c’è, passa per la graticola del “Partito progressista serbo” di Vucic. O sei iscritto e accetti le regole mafiose del clan, o ti arrangi. O prendi la via dell’emigrazione all’estero. I professori da parte loro lasciavano fare, anche perché il loro stipendio era comunque garantito, ma stando a guardare, senza – per lo più – schierarsi. Meglio non provocare gli esponenti del potere, del PPS, che tutto osserva, tutto controlla e decide.

Anche le carriere della maggior parte di loro. La democratura serba vanta una consolidata esperienza, dalla caduta di Slobodan Milosevic nel 2000 in avanti, e Aleksandar Vucic, che del “vodz” (“duce”) dei Balcani fu giovane ministro dell’informazione, è emerso negli anni come il suo più astuto erede politico. Oggi, però, quel “tempo” sta cambiando. O meglio: è già cambiato nel sentimento di una buona parte di Paese, quello più urbano e istruito. Si tratta di capire se, adesso, anche il “sistema Vucic” sia destinato a crollare miseramente come la pensilina di Novi Sad, nonostante l’apparente funzionalità fino al momento del tragico incidente. E se possa lasciare in modo indolore il passo a qualcosa di nuovo e migliore. Ed è qui che i dubbi insorgono prepotenti.

In questo momento, è però la cronaca di un grandioso e inedito movimento di protesta a imporsi alla nostra attenzione. Sabato scorso, come documentato dai giornalisti che sono riusciti a entrare nella capitale, i manifestanti sono giunti con tutti i mezzi possibili, anche a piedi o in bicicletta, dal sud e dal nord. Dalla meridionale Nis (a 250 km), dalle settentrionali Subotica (al confine ungherese, 200 km) e Novi Sad (100 km), e da molti altri centri minori. Tutta la Serbia si sta svegliando. Gli studenti ne sono l’anima, ma la voglia di voltare pagina ha finito per coinvolgere tutte le categorie, classi sociali e generazioni.

Ce lo conferma al telefono, da Belgrado, Mirjana Ognjanovic, giornalista, scrittrice e traduttrice, veterana della piazza anche negli anni Novanta delle guerre jugoslave e della repressione poliziesca più dura scatenata da Milosevic. Ha ospitato anche lei in casa propria, come molti belgradesi, un gruppo di giovani arrivati dal Sud senza mezzi per potersi permettere una stanza d’albergo, ammesso di trovarne disponibili davanti a un afflusso del genere. Puntuali all’appuntamento con il Giubileo della democrazia e dell’onestà reclamate.

Che il malcontento per la politica autocratica e corrotta di Vucic fosse diffuso lo sapevamo, ma che a prendere l’iniziativa fosse una generazione che non legge libri, sta incollata agli smartphone e non si interessa alla politica, è stata una vera sorpresa per tutti. Una meravigliosa sorpresa. Questi ragazzi vedono che scuole e ospedali non funzionano, niente funziona, e chiedono di vivere finalmente in uno Stato normale, chiedono di avere un futuro. Non attaccano direttamente Vucic, e sono pacifici, non offrono pretesti ai provocatori del regime. Ma è chiaro che il primo responsabile della crisi della Serbia è un presidente che ha svenduto il Paese agli stranieri, anche agli europei, appaltando l’acqua, le miniere, le fabbriche, e accetta i rifiuti tossici dall’estero, anche dall’Europa, che nessuno vuole.

Ma c’è ancora un sogno europeo fra i cittadini? E l’opposizione che fa, raccoglie la protesta? “No, di Europa non parla più nessuno, non si è vista una sola bandiera dell’Ue alle manifestazioni.

L’Europa ha tradito da tempo il popolo serbo, continuando ad appoggiare Vucic e a fare affari con lui. Come ha detto giustamente l’economista Jeffrey Sachs, voi europei guardate a Trump che vuole distruggervi, invece di cercare un dialogo con la Russia che è il vostro naturale mercato. Non sto difendendo Putin sull’Ucraina – chiarisce Mirjana – ma c’è un’insopportabile ipocrisia nella politica di voi occidentali. Quanto alle forze di opposizione, sono letteralmente ridotte al silenzio. Tutto il sistema dell’informazione e dei media è nelle mani del presidente, viviamo in un modello Nord Corea”.

Il dubbio è che anche la tattica dell’apparente indifferenza verso le proteste, e dell’attesa paziente coltivata da Vucic che alla fine tutto si risolva in un ballon d’essai come altre volte in passato – seguendo anche in questo l’esempio del suo maestro “Slobo” – venga travolta dalla determinazione della piazza a continuare fino alla resa dei conti. E che, in tal caso, a male estremo, possa sguinzagliare senza pudori formali i suoi sgherri, ex paramilitari, e le forze speciali per stroncare una contestazione ormai inarrestabile. I segnali sabato non sono mancati. Alcuni agenti hanno utilizzato i “vortex cannon”, i cannoni ad aria per disperdere i manifestanti e qualcuno, specie fra gli anziani trascinati in un tale vortice di giovanile ribellione, è stato colto da malore. E’ volata qualche randellata e si registrano feriti.

Vucic è odiato molto più di Milosevic, te lo garantisco, e certamente è pronto a ricorrere alle maniere forti – avverte Mirjana Ognjanovic -, ma la polizia e l’esercito non gli obbediranno, non spareranno sulla folla. Anche loro sono stanchi di questa vita senza prospettive. Il regime aveva in programma di organizzare una contromanifestazione per fine marzo, ma molto probabilmente sarà costretto a rinunciare. Ormai, si appoggia totalmente alla criminalità, alle mafie, potentissime nel Paese. E, anche se ti sembrerà paradossale, conta ancora sull’aiuto dei politici europei. Delle vostre cancellerie. Sorride a Bruxelles, da cui pure arrivano finanziamenti. Uno scandalo. L’Europa sta con il regime, non con il popolo serbo, per questo nessuno qui la vuole.”

Chi sarà in grado allora di prendere l’iniziativa, se l’opposizione non ha voce, e forse neppure la necessaria credibilità per guidare il movimento?

“Qualche volto nuovo, sconosciuto, giovane. Che può emergere anche all’improvviso. Guarda a Robert Golob in Slovenia, tre anni fa. O a Milojko Spajić, l’anno scorso in Montenegro. Forze giovani, liberali, aperte alla vera democrazia e al dialogo. Il cambiamento non è impossibile, e saranno i cittadini, non i leader stranieri, a sceglierlo.”

Mirjana Ognjanovic ci spera. Se per Aleksandar Vucic, un incrocio fra Orbàn e Putin (non a caso è amico di entrambi), da tredici anni ininterrottamente al potere sia in vista il capolinea, lo capiremo presto. Ma la più pericolosa incognita nei Balcani extra Ue di oggi, non alligna solo nella capitale dell’ex Jugoslavia.

Bisogna spostarsi di trecento chilometri un po’ più a ovest, a Banja Luka, per accorgersi che la miccia di un altro cambiamento storico, questa volta brutale e reazionario, sta bruciando (quasi) silenziosamente. Nella capitale della Repubblica Serba di Bosnia (Srpska Republika) – una delle due entità riconosciute dagli accordi di Dayton per tenere in piedi, in condominio con la Federazione croato-musulmana, un simulacro di unità statale bosniaca – al capolinea è probabilmente giunta la possibilità di mantenere una convivenza pacifica fra gli ex nemici serbi, croati e musulmani. L’ipernazionalista presidente Milorad Dodik continua infatti a svolgere le sue funzioni del tutto illegalmente. Da abusivo, perché inseguito da un mandato di cattura emesso a fine febbraio – con annessa interdizione dai pubblici uffici per sei anni – dalla Procura centrale bosniaca per inosservanza delle leggi e norme stabilite dall’Alto rappresentante europeo.

Quindi, un presidente formalmente destituito. Con – non piccola differenza rispetto alla surreale situazione nella “madrepatria” Serbia dove dilaga la contestazione al presidente – la gente è tutta dalla sua parte. Secessione in vista? Vale la stessa incertezza espressa poco fa per la “rivoluzione pacifica” in Serbia. Dipende molto anche dall’evoluzione del quadro geopolitico internazionale. Dai rapporti di forza. Dodik ha come padrino da lui venerato un certo Vladimir Putin, e come amico fidato un certo Viktor Orbàn. Basterà un contingente militare internazionale di 1500 uomini (la missione Eufor dell’Unione Europea, di cui fa parte anche l’Italia con circa 160 uomini) ad evitare il peggio? E in Kosovo, fra la minoranza serba asserragliata nelle municipalità del Nord e la maggioranza albanese, siamo proprio sicuri che l’apparente calma di quest’ultimo periodo significhi raggiunta stabilità? C’è da dubitarne. Di una sola cosa possiamo dirci certi: che gli scricchiolii politici e istituzionali che arrivano dai Balcani, sono tutt’altro che piccole crepe riparabili con piccoli interventi di manutenzione. Una terra complessa, quanto meravigliosa e sanguigna, da cui noi europei siamo sempre stati colti di sorpresa: nel 1914, come nel 1991.

Speriamo non anche nel 2025.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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