“Il confine marcava una linea invisibile nella boscaglia illirica, come un serpente immobile e silenzioso pronto a spargere i suoi veleni. Una sensazione percepita, la soglia invalicabile di un tempo ostile”. L’incipit incisivo e (il)lirico del romanzo “È notte sul confine” (Guanda, pp. 250, euro 18,00), di Pietro Spirito – da poco in libreria è come un messaggio premonitore. Ci riporta al clima da psicosi collettiva incombente sul confine orientale negli anni plumbei della guerra fredda.

Quasi un ammonimento dantesco, per i contemporanei dell’epoca, a “lasciare ogni speranza o voi che entrate” o che vi azzardate ad entrare, o che rischiate di farvi risucchiare, al di là di quella linea divisoria stabilita dalle grandi potenze alla fine della Seconda guerra mondiale, passata alla Storia come “cortina di ferro”. Siamo sul confine super-blindato fra Italia e Jugoslavia, avamposti l’una dell’Occidente democratico e l’altra dell’Est comunista, nell’estate del 1970, in un momento politico gravido di cambiamenti e pericoli per il nostro sistema democratico. Una pattuglia di Lancieri di Saluzzo della caserma di Poggioreale del Carso è in perlustrazione in quella terra di nessuno che istericamente è fatta apposta per distanziare o per essere rivendicata da ognuno dei due eserciti contrapposti, e a un certo punto si accorge di avere indebitamente sconfinato, o forse di essere finita in una trappola. “Stoj!”, “Ferma!”, urlano i graniciari slavi con la stella rossa sul berretto dopo aver circondato e intontito i Lancieri con la luce abbagliante delle fotoelettriche nel cuore della notte. Fine del primo capitolo. Come sarà finita per i malcapitati soldati italiani, si vedrà. Nel secondo capitolo, cambiano lo scenario, gli attori e – di poco – pure il calendario.

Operazione, dal punto narrativo perfetta. Il lettore ha già l’acquolina in bocca. È affamato di parole, curioso di sfogliare una dopo l’altra le pagine di un mistero in itinere. La “spy story”, per gli amanti del genere, è pronta e servita. Vi è solo da addentrarsi, non tanto nella selva oscura del Carso spaccato a metà fra Italia e Jugoslavia, ma nell’autunno cruciale del 1970, per l’appunto. L’anno, iniziato di fatto con la strage di Piazza Fontana del dicembre 1969, vede calare il sipario sugli anni felici del boom economico e rialzarlo sulla stagione cupa della strategia della tensione. Tutto si tiene e si spiega alla luce dell’incipiente “golpe” affidato da poteri occulti a Junio Valerio Borghese. Il mito del Comandante della Decima Mas è ancora vivo nel capoluogo della Venezia Giulia, dove i reduci del fascismo salodiano si sono riciclati e dispersi in mille rivoli, chi in impieghi lavorativi, chi nel sottobosco del crimine, chi negli anfratti delle istituzioni, dopo la mai troppo criticata “amnistia Togliatti” del 1948.

Fra questi sopravvissuti alle epurazioni del dopoguerra, emerge un personaggio del tutto atipico, una sorta di mosca bianca della galassia nera, il quarantenne Ettore Salassi. È lui il protagonista scelto dall’autore per condurci in una perlustrazione inedita della torbida Trieste dell’epoca, per le cui piazze e strade antiche si muove con la testa periscopica del bravo giornalista di nera che insegue la verità in merito alla morte di un giovane militare di leva, il cui cadavere è stato ritrovato su una spiaggia con un proiettile nella schiena. Guarda caso, si tratta di uno dei fucilieri della sfortunata pattuglia nella “boscaglia illirica”. Quella di Ettore Salassi è, in realtà, una storia individuale, di solitudine e rimorsi, di rigore professionale ma anche di uso cinico del suo mestiere per svolgere a latere il ruolo di informatore del Sid (servizi segreti). Un uomo contraddittorio, senza pace, attirato da sregolate avventure galanti ma che finisce per essere infine imprigionato nelle maglie di un amore fatale. Quello per Maja Kralj, un’affascinante spia jugoslava. È anche un personaggio amletico, o kafkiano, il giornalista-detective, la cui perenne angoscia esistenziale affonda le radici nel proprio passato di giovanissimo combattente della Decima Mas.

Venticinque anni dopo, proprio nell’indagare per il suo giornale sulla misteriosa fine del soldato Settimo Santo, avrà così finalmente l’occasione di regolare i conti con se stesso, arrivando a scoperchiare tutto quel mondo sotterraneo e inquietante in cui, nel capoluogo giuliano, brulicano trame, traffici d’armi, agenti segreti, motovedette, centri di addestramento paramilitare camuffati da innocui palestre, in preparazione del “golpe Borghese”. È questa la sua grande occasione. La possibile leva di un riscatto morale che avverte come ormai necessario per scacciare definitivamente le ombre del suo “errore di gioventù”, da cui si sente inseguito persino in sogno.

No, “È notte sul confine” non è semplicemente un giallo mozzafiato, certamente degno di un seguito letterario, se mai Pietro Spirito lo avrà in animo. È anche il ritratto impressionante di un’Italia precipitata in perverse trame oscure e assassine. È la memoria di una Trieste, gendarme occhiuto e sentinella incarognita di un confine strategico e per questo incrocio di spie, retrovia zavorrato dai depositi segreti di Gladio e da un formicaio di caserme, posti di guardia e polveriere.

Significativo e illuminante il collegamento che l’autore compie fra la tentata svolta autoritaria ai danni dell’allora governo di centrosinistra guidato dal democristiano Emilio Colombo e la preannunciata prima visita di Stato in Italia del Maresciallo Tito, prevista per il dieci dicembre. Un evento che riaccende l’ostilità verso il capo carismatico della Jugoslavia comunista, con la quale i rapporti si sono stabilizzati solo nel 1954, con la soluzione dell’annosa “questione di Trieste”. Tito, per le associazioni degli esuli giuliano-dalmati e i partiti di estrema destra, resta l’odiato” infoibatore degli italiani”, il responsabile primo e ultimo della “catastrofe dell’italianità adriatica” in Venezia Giulia, per riprendere la definizione efficace coniata qualche decennio dopo dallo storico Raoul Pupo. Quel viaggio, che potrebbe sancire anche la definitiva rinuncia alla cosiddetta “Zona B” dell’Istria, va dunque impedito. E, difatti, verrà annullato all’ultimo momento per ragioni di sicurezza e rimandato di un anno.

Il giornalista Ettore Salassi pagherà la sua cocciutaggine nel volere scoperchiare tutte le matrioske aperte dal caso del soldatino ritrovato cadavere a Punta Sdobba – nella foce dell’Isonzo vicino a Grado – risvegliandosi un mattino stordito e ingessato in un letto d’ospedale. A lui, crediamo, potrebbe dar voce Ilias, il personaggio di un altro libro stupendo, “Vittime di pace”, dello scrittore e ambasciatore greco Vassilis Vassilikòs, quando dice alla sua compagna di viaggio in treno Machi: “E allora come si fa a camminare dritti in questo mondo marcio? Non abbiamo ideali. Non abbiamo una fede. Siamo senza nulla, nudi. Spogliati di sogni e ideologie. Nudi, perduti, vuoti. Siamo vittime di pace, con il nostro carico segreto di ferite”.

Non è forse un caso allora che, fra personaggi inventati e storicamente veri, Spirito citi nelle prime pagine di “È notte sul confine” proprio Vassilikos, invitato da un circolo triestino a tenere una conferenza, dove Salassi conoscerà Loredana, una delle sue conquiste senza futuro. Anche Ettore, come Ilias, è un uomo senza ideali. Anche lui si porta addosso il suo carico segreto di ferite.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here