Il suono di un vecchio orologio a pendolo scandisce il tempo. Di fronte a me siede Piero, un anziano moglianese, il cui nome è di fantasia ma la cui autenticità traspare dal suo viso segnato dagli anni, come cicatrici di una vita dura. La luce soffusa getta ombre sulle rughe del suo volto, mentre la sua voce, lenta ma ferma, risuona come se ogni parola fosse una battaglia vinta contro il passato.
“Grazie per aver accettato questa intervista. Non è facile parlare di quegli anni, lo so. Ma vorrei che ci raccontasse, se possibile, cosa ha vissuto dopo l’8 settembre del ’43”.
Gli occhi di Piero si abbassano per un attimo e con un sospiro profondo: “Ah … l’8 settembre. Un giorno che non dimenticherò mai. Io ero a Fiume, allora. Un soldato, un semplice soldato, come tanti. Con l’annuncio dell’armistizio tutto è cambiato in un istante. Non c’era più un comando, non c’era più una linea, solo caos, paura … e tradimento. Quello che è venuto dopo … non si può raccontare tutto. Troppa gente è morta, troppa violenza, troppa sofferenza”.
Piero si ferma per un momento, fissando il vuoto.
“Eravamo sbandati, come cani senza padrone. Io … io ho cercato di scappare. Ma eravamo in tanti a fuggire. Non volevo finire nelle foibe, non volevo fare quella fine. Così ho preso il mio zaino, ho messo dentro quel poco che avevo e sono partito, a piedi. Dovevo attraversare l’Istria e raggiungere Trieste. Da solo. Non potevo fidarmi di nessuno, nemmeno dei miei compagni di fuga”.
“Ma non è stato facile, giusto? Lei ha parlato di aiuti dai contadini. Come ha fatto a sfuggire ai partigiani titini?”
“I contadini, … sia italiani che slavi, … poveri si, ma gente buona, quella che aiutava senza chiedere nulla in cambio. Mi hanno dato degli abiti civili, mi nascondevano nei fienili e mi davano da mangiare. Ma ogni volta che sentivo un rumore, ogni volta che vedevo delle ombre in lontananza, pensavo che fosse finita. I partigiani titini … loro non facevano distinzioni. Se eri italiano, eri un nemico. E io ero il nemico in fuga”.
Piero alza lo sguardo verso di me con occhi che sembrano cercare qualcosa oltre le domande.
“Una volta, ricordo, ero nascosto dietro una casa. Li ho sentiti passare, a pochi metri da me. Li vedevo parlare, gesticolare. E io stavo lì, senza respirare, sperando che non mi notassero. Ma ero giovane, allora … forse avevo più paura di adesso, ma avevo anche più forza. Ho continuato a camminare fino a Trieste”.
“E poi? Quando è arrivato a Trieste cosa è successo?”
“Quando sono arrivato a Trieste, pensavo che fosse finita. Ma non era finita. Era solo un’altra trappola. I fascisti, gli stessi che ci avevano abbandonato dopo l’armistizio, cercavano di riprendersi la città. E io, ero un traditore per loro, un fascista da fucilare. Ma non sono mai stato un fascista. Ero solo un figlio di contadini che cercava di sopravvivere. Così, quando ho visto un treno merci partire, ho preso la decisione”.
Il ricordo di quel momento di tensione riporta Piero a una realtà lontana.
“Non avevo altra scelta. Sono saltato sul treno. Sapevo che non avrei potuto arrivare lontano. E così, dopo qualche ora, sono saltato giù nella campagna di Marcon. Il treno andava troppo veloce, troppo vicino alla morte. Eravamo in tanti ad aver fatto quella scelta. Se i fascisti e i tedeschi ci avessero preso, ci avrebbero fucilato”.
“La guerra di Piero” continua con la pubblicazione
della seconda parte il 14/03/2025
Treviso 11 03 2025 – Grazie di questo contributo…