Il Partito non è un retaggio culturale togliattiano di antica storia comunista. Il suo venir meno rischia di condurre le strutture a diventare strumenti passivi di cordate, di progetti e di ambizioni.
Meglio “partire” da lontano. Il Partito ha innanzitutto la P maiuscola. Si badi bene: non è un retaggio culturale togliattiano di antica storia comunista. La P maiuscola è una scelta. Intanto sottolinea la generosità di definirsi con coraggio e umiltà una “parte”.
Non il tutto ma una parte. E lo si dice sin dall’inizio. In qualche modo ci si limita, si annuncia che si sa di essere diversi da ogni aspirazione totalizzante.
E quindi si fa apprezzare il “limite” che nella parola stessa compare. E il Partito che aspira a crescere di numero e di influenza è tutt’altro che contraddittorio con le definizioni che fin qui si sono usate. Perché vi è quel “limite” di cui abbiamo detto.
Esso sancisce che va riscontrato il perché si sceglie di essere da quella “parte”. Quindi si esplicitano le “ragioni” di uno schieramento, di una appartenenza, di una scelta.
E qui bisogna comportarsi seriamente.
Essere “parte” non significa avere un unico modo di recitare un ruolo nella società.
Essere parte può comportare ragioni e modi di appartenenza anche opposti e profondamente diversi. E ci si può ragionare anche ricordando le citazioni di Max Weber.
Ad esempio essere un “partito di potere” puro e semplice (e naturalmente con la p minuscola), essere un partito puramente di “scopo” elettorale (si chiamano in genere “comitati”), essere un luogo solo ideologico e fidelizzato che riunisce una sorta di “setta” più o meno legata alla realtà antica o presente. E vi sarebbero altre possibilità di enumerazione ma le risparmio. E allora perché il Partito ha la P maiuscola se non guarda al passato?
Perché è un atto di onestà intellettuale: infatti definisce, annuncia, schiera, pone e propone.
Ma l’onestà intellettuale ha la vita corta se è solo affidata allo sforzo e alle tendenze dell’individuo. Perché non viviamo nel mondo della fantasia ma nel mondo di oggi. E due questioni si intrecciano e mi sembra vadano viste e capite tra le tante. E ciò perchè incidono profondamente sulla “forma” e la “sostanza” di quel Partito di cui stiamo scrivendo.
La prima è la crisi delle ideologie.
Non è qui il caso di dare giudizi di merito ma è evidente che il cosiddetto secolo breve ha condannato a morte per i suoi fallimenti il sistema dei partiti. E ciò a prescindere dal bene e dal male. Le immagini delle dittature ci sfilano drammaticamente di fronte agli occhi.
Ma non bastano.
Più recentemente tangentopoli ha eliminato perfino l’immaginario collettivo del partito come luogo progettuale positivo relegando la sua percezione alla pura amministrazione dei poteri.
E anche qui al di là del giusto e dell’ingiusto.

Ma la storia insegna che le “forme” dello stare nella società cambiano ma non dimenticano in toto il passato. E allora una cosa abbiamo imparato. Che se la vecchia forma novecentesca del partito è finita non vi è ancora una nuova capacità di stare nella società contemporanea che sia originale, innovativa e accettata.
E questo perchè accade anche altro che incide sull’organizzazione della politica.
Cambia cioè il mondo della comunicazione.
Non sempre questo mutamento lo abbiamo di fronte agli occhi in tutta la sua potenza.
Le forme con cui la notizia ci arriva sono ormai immediate, studiate, calcolate, misurate e preparate “prima”. Non singolarmente naturalmente. Non vi è dietro la porta (ancora) “l’uomo nero”, la “matta”.
È il clima, l’acqua, il sistema, l’ambiente che cambia e che cuoce la notizia, l’avvenimento, il fatto che destano il nostro interesse. E siccome l’ascolto è cambiato ed è sempre meno collettivo e sempre più individuale le difese, gli antivirus, i santi “dubbi” della nostra coscienza (di una volta) sono molto più disarmati.
I social sono l’immagine della disperazione individuale, della debolezza senza confronto, della crisi dell’intelletto abbandonato nel deserto degli urli. E allora la fine delle ideologie e dei partiti ed il cambiamento della percezione dei fatti hanno reso poco credibile la continuazione della forma politica che valeva nel Novecento.
Ma i problemi che abbiamo posto all’inizio rimangono tutti.
Perché abbiamo visto che non siamo in grado di “inventare” nuove forme di partecipazione politica e quindi i partiti di oggi (mi rifiuto di cambiare parola per pura piaggeria al nuovo secolo) possono avere, e in effetti hanno, ragioni e significati diversi.
E allora? Abbiamo bisogno di Partito, il passato è finito e le incognite sono tante così come le insidie. Che fare?
Intanto dare attenzione a questo tema.
Far finta di nulla sul senso e la ragione dei partiti aiuta solo chi vuole comandare senza condivisione e senza democrazia.
Di questo abbiamo ormai piena contezza nel bene e soprattutto nel male.
A meno che non ci si accontenti della metà del popolo, non si creda che chi non va a votare è perduto e colpevole, non si supponga che in fondo è troppo faticoso praticare sul serio la democrazia della partecipazione ed in fondo non si creda che il potere non cambia se i votanti calano: gli eletti sono numericamente gli stessi.
E tutto questo va fatto subito a sinistra. Perché le forme condivise della democrazia guardano a quella “parte”, a quel destino. E sono qui più instabili, più litigiose, più esplicite, più tese.
Perché non hanno un pre – scopo esplicito, perchè la democrazia appare come l’acqua obbligata della convivenza anche conflittuale.
E questa carenza di “Partito” con la P maiuscola rischia di condurre le strutture a diventare strumenti passivi di cordate, di progetti e di ambizioni.
Progetti e ambizioni sono umani e fattibili ma hanno la necessità di vivere insieme e di maturare in “comunità”. E allora le fondamenta sono realmente indispensabili e si chiamano regole.
Perché i Partiti possono e debbono avere regole che oggi sono poco conosciute, poco applicate, poco rappresentate, poco discusse. Regole che si possono e debbono porre non per legge ma per scelta.
La struttura, l’ascensore politico, i finanziamenti, i diritti e i doveri, i sistemi di voto, gli incentivi partecipativi, le condizioni di partecipazione, gli strumenti di espressione, gli optional finanziari, le occasioni permanenti di manifestazione delle opinioni, le relazioni tra organismi, i tempi degli incarichi.
Sono solo esempi ma segnano una condizione necessaria: quella di definire come si conta e quando si hanno diritti e doveri.
La storia dei partiti di sinistra in questo Paese ha dato volutamente poca attenzione a tutto ciò dopo gli anni Ottanta del Novecento.
È ora di cambiare.
Si ringrazia la redazione della testata giornalistica “ytali.com” per averci concesso di riproporre l’articolo su “ILDIARIOonline”