Intervista alla maestra Nerina Vretenar.

Ancora abbiamo in mente le parole del presidente Mattarella in occasione del Giorno del Ricordo. Un accorato appello “alla riconciliazione e a chiudere definitivamente decenni di polemiche politiche”. Obbediamo. Abbiamo cercato, proprio qui a Mogliano, una testimonianza di quell'infausto periodo. E abbiamo pensato a Nerina, storica maestra di Campocroce che da bambina ha percorso il destino di profuga. 

Nerina a te la parola.

Grazie per avermi dato questa occasione. Ti dico però che la mia è una testimonianza un po’ particolare. Non avevo ancora tre anni, ero molto piccola quando, con i miei genitori, partii da Fiume dove abitavamo verso l’Italia. Del primissimo periodo ho nella mente solo qualche immagine e qualche racconto dei miei genitori.

Intanto questo cognome Vretenar, morbido come la carta vetrata…

Conosco il tuo umorismo, sto leggendo “Spiocion” e non me la prendo, comunque all’università il professore di storia moderna diceva che il nome era di origine boema, a questo proposito spiegava che nel Seicento le migrazioni in tutta l’Europa ecc. ecc. Ma questa è un’altra storia.

Siamo in Istria?

I miei genitori erano originari di un paesino dell’interno dell’Istria, nella zona di Pisino, Pedena. Erano contadini, era una zona di piccolissime proprietà familiari. Un paesino di neanche mille abitanti frazioni comprese che ha però una cattedrale del Settecento con un bellissimo campanile. Veneziano: a proposito di Storia …

Cominciamo ad entrare nella storia familiare e nella tua storia.

Allora intanto io sono del ‘48 e quindi fatti due conti. Mio papà nasce nel ’17, giusto in tempo per essere ufficialmente austro ungarico. Ma dopo poco diventa ufficialmente italiano. Giovanissimo fa il servizio militare in Marina, pochi giorni prima di essere congedato scoppia la guerra, se la fa tutta, torna a casa dopo nove anni e ufficialmente non è più italiano, è jugoslavo. Se fosse rimasto lì per lui sarebbe cambiato tutto di nuovo all’inizio degli anni ‘90: si sarebbe trovato di nuovo in uno Stato diverso, la Croazia. Cambiare Stato quattro volte rimanendo nello stesso paesino, non è male vero?

Sì decisamente. Comunque, nasci tu a Fiume e nel ‘51 decidete di andare in Italia.

Sì, i miei genitori si sposano e si trasferiscono a Fiume. Era il dopoguerra, un contesto di povertà diffusa adesso inimmaginabile, il caos regna, i prezzi dei generi di prima necessità (quando si trovano) sono alle stelle. Molti sono già andati esuli in Italia, l’esodo è uno stillicidio che continua per diversi anni. Partiamo anche noi, con due casse di legno, una piccola e una più grande, che contengono tutto, e basta. E sai dove finiamo?

Non ne ho idea. Qui vicino?

I profughi, che partivano dopo aver chiesto e ottenuto un passaporto provvisorio e un visto di uscita, arrivati in Italia venivano “smistati” in vari campi profughi allestiti in tutta la penisola, Sardegna compresa. A noi tocca il campo di Rojo Pineta vicino all’Aquila, in montagna. Lì le famiglie sono collocate in un grande edificio che in passato era stato adibito a colonia estiva per bambini, c’erano le camerate. Vedo per la prima volta la neve.

colonia Rojo Pineta

Per fortuna che tuo papà era marinaio…

Sì infatti non resiste. Rinuncia alla sistemazione in campo profughi e al sussidio e risale a Trieste con la famiglia, lì c’è uno zio su cui forse si potrà contare, soprattutto c’è un porto importante e ci sono le sedi delle grandi compagnie di navigazione. Dopo un po’ riesce a trovare un lavoro stabile, anche se duro: si imbarca come marinaio sulle navi di una delle grandi compagnie di navigazione. Col tempo diventerà nostromo ma per tutta la vita sognerà un lavoro “a terra”, vicino alla famiglia. Non riuscirà a realizzare il suo sogno.

Non commuoverti. Ma dove vivevate a Trieste?

Anche a Trieste il dopoguerra non era un periodo roseo, in più la situazione politica era incerta. Siamo stati ospitati prima dallo zio, poi, in attesa di tempi migliori, in un “cameròn” messo a disposizione e gestito dal Comune per gli sfollati (non ci sono solo i profughi ad essere rimasti privi di un alloggio) in via dei Soncini, era una vecchia caserma costituita da un edificio con stanzoni e un altro con la cucina comune e i servizi. Si resta lì per un paio d’anni. Lo sai, Trieste ha delle storie incredibili per quanto riguarda…

Conosco la vicenda dei silos, quelle costruzioni enormi vicino alla stazione dove stanno i migranti, in condizioni a dir poco precarie.

Peggio, molto peggio, ora anche il silos gli è stato interdetto. Vengono lasciati a se stessi senza nulla e senza prospettive per il futuro dopo che hanno affrontato i tragici percorsi della rotta balcanica, spesso vittime di ogni sorta di violenze.  Disumano.

In quegli edifici (settant’anni fa erano meno fatiscenti) hanno sostato anche molti profughi istriani e dalmati. E c’è un’altra cosa che forse non sai.

Dai racconta.

C’era il problema di alloggiare provvisoriamente i tanti profughi che arrivavano, perfino la Risiera di San Sabba è stata attrezzata ad alloggio provvisorio per un periodo.

Posso farti una critica? Mi hai chiesto di mio padre e nulla di mia mamma.

Scusa il solito maschio “semo”. Che ricordi hai di tua madre?

Mia madre era del ’27. In Istria c’era chi parlava italiano e chi parlava croato (nel senso del dialetto locale in entrambi i casi), si parlava italiano nei piccoli centri e croato nelle campagne attorno, a macchia di leopardo. Comunque, in qualche modo i gruppi si capivano e comunicavano, come succede sempre quando si vive vicini e si viene lasciati in pace. Nella famiglia di mia mamma ovviamente si parlava croato, per cui quando è andata a scuola ha dovuto imparare a fatica una lingua completamente nuova per lei. Soffrendo a volte, da ragazza, nei rapporti con le “autorità”, che pretendevano che parlasse la lingua ufficiale anche chi non la padroneggiava completamente.

Quando si sposa, a 19 anni, ne ha già trascorsi cinque “in tempo di guerra”, buona parte dell’infanzia e tutta l’adolescenza e si ritrova anche lei in un Paese diverso, con un altro nome, un’altra lingua che viene imposta e altri confini.

Più tardi, a Trieste, è diventata perfettamente bilingue nel senso che oltre al croato parlava il triestino (che è una bellissima lingua, vero?) anche se a volte le capitava ancora di sentirsi a disagio (e io con lei) con l’italiano. Avrei dato qualsiasi cosa per aiutarla.

E poi diventi maestra.

E mi appassiono, e cerco di appassionare gli alunni, alla lingua. Aspetta, però, prima lavoro in un preventorio a Sappada.

Preventorio? E cos’è?

Una specie di collegio riservato alle bambine e ai bambini dei profughi di salute cagionevole, che rischiavano di contrarre malattie polmonari, soprattutto la malattia che era uno degli spauracchi di allora, la tubercolosi. “Preventorio”, per prevenire, appunto.

Posso farti una domanda velenosa?

Vai.

I profughi sono stati criticati per aver avuto trattamenti di favore, nei concorsi, nell’assegnazione delle case e altro. Cosa dici?

Sì, nei primi anni. Quando ho fatto il concorso magistrale io non ho usufruito di “quote” e punteggi che erano già stati aboliti e la mia famiglia è uscita molto presto dal percorso di assistenza avendo lasciato volontariamente il campo profughi.  

Nell’Italia devastata del dopoguerra l’assistenza ai profughi, tutto sommato dignitosa, ritengo sia stata dettata da una politica lungimirante e coraggiosa per quei tempi e in quelle circostanze.

Era ovvio che gli atteggiamenti degli “autoctoni” erano diversi, ma anche quelli dei profughi lo erano, andavano dalla serena accettazione, da parte dei più, di una realtà che era impossibile modificare, all’atteggiamento rancoroso di una nostra vicina di paese convinta che “riavremo la nostra terra solo con il sangue!” o di un’altra che considerava barbari e rozzi “i croati” che avevano occupato “le nostre terre” ed erano stati la causa di tutto.

L’appello di Mattarella alla riconciliazione mi sembra quanto mai opportuno.

Dicevo diventi maestra e stai quindici anni a Campocroce.

Prima ventidue anni a Treviso. E adesso, con altre colleghe, insegno la lingua, col supporto del Quartiere Est di Mogliano, a un gruppo di donne non italiane che vengono da tutto il mondo. Alcune vengono da Paesi in guerra, sono nate con la guerra e non hanno mai visto altro nel loro Paese. Hanno tutte gli stessi sogni, che sono anche i nostri: vivere dignitosamente, lavorare, crescere i figli, stare insieme in pace. Sono profughe anche loro.

Nerina, minuta e tranquilla, sorseggia il caffè che ormai si è raffreddato. Non abbiamo parlato di contenziosi, di rivalità ma ho la sensazione di aver capito molto di più.

Otello Bison
Otello Bison scrive a tempo pieno dividendosi tra narrativa e divulgazione storica. Collabora al “ILDIARIOONLINE.IT” su temi ambientali e locali.

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