Ricordo un giochino, una prova che si faceva tanti anni fa. Quando, superata l’età dei sogni ideali entravamo, integrati spontaneamente o meno, impiego piacente o meno, come soldatini nel mondo del lavoro: per la prima volta sperimentavamo che il nostro tempo, la nostra vita, era devoluta alla produzione in cambio di soldi. Anche certi cosiddetti valori morali che – prima del tuffo nella piscina senz’acqua della realtà concreta – ci erano stati instillati con fermezza nella crapa dalle nostre famiglie venete (col supporto del catechismo obbligatorio), ora assumevano l’aspetto di una nuova sostanza deteriorabile. Scoprivamo, cioè, con una certa disillusione, che valevano relativamente. Così, dopo il pranzo nella mensa della fabbrica, si andava a prendere un caffettino svelto al bar e capitava che si commentassero gli scandali fiscali in cronaca, le corruzioni politiche, gli emolumenti esagerati dei calciatori. Discorsi appunto da bar che sempre ci hanno bagnato le labbra nel Bel Paese.
E capitava che il più ardito sconvolgesse il crocchio degli amici con una provocazione: in fondo quanto valeva l’onestà? Il giochino, innalzando di volta in volta la cifra, centomila lire, un milione di lire, cento milioni di lire, un miliardo di lire, cento miliardi, faceva cedere sempre qualcuno tra le risa generali: uno col senso pratico e finalmente disposto, almeno a parole, dopo le resistenze di prassi, a confessare che sì, sarebbe stato disposto a lasciarsi corrompere. Che so: a rubare, o a farsi sodomizzare, o a gettarsi da un ponte in un fiume d’inverno. Ma solamente per una certa cifra ipotetica, altissima e dunque irrinunciabile, che un altrettanto ipotetico corruttore tentatore sarebbe stato disposto a pagare, per compiere l’azione temeraria… Scemenze così, innocue e teoriche, che la fine della pausa riportavano nella loro dimensione di sogni birbanti; giochi di danaro teorico per esclusi, ça va sans dire, da certe orbite planetarie, inavvicinabili per i comuni mortali.
Gira da sempre la frase che, in fondo, tutto ha un prezzo.
Anche il buon Marx che idolatra non lo è mai stato, ci ha sbattuto in faccia la triste realtà: il dio danaro è determinante.
Ci siamo abituati a pensare in termini di soldi, scavalcando progressivamente un modello di società, almeno un pochetto alternativa, che si basi sul principio di felicità (o un suo surrogato) non monetizzabile. E in fondo, diciamocelo, non crediamo al paradosso dell’economista Easterlin, che nel 1974 dimostrava scientificamente come i soldi, oltre certi livelli di reddito, non fanno necessariamente la felicità di una società, ma ne aumentano solamente l’aspettativa.
Chi scrive non è un figlio dei fiori, men che meno uno che abbia praticato una via alternativa. Ma mi vien da pensare che occorra almeno provare a ridimensionare la sopravvalutazione del reddito, come chiave d’accesso al bene. Secondo la storiella della rana bollita a poco a poco, ci siamo abituati a immaginare che la salute si possa presidiare solo spendendo cifre folli, affidandoci alla sanità privata. L’alternativa è la rassegnazione al disservizio.
Persino la bellezza sta assumendo un valore esclusivo: non mi riferisco alle cure estetiche. Il caso riguarda, ad esempio, la “nostra” città di Venezia.
Già muoversi con il vaporetto ha un prezzo di nove euro e mezzo a corsa. Per una famiglia in gita è molto. Il Comune sostiene dei costi per assicurare i servizi: tutto vero. Ma adesso è partita l’ipocrita affermazione che per entrare in città deve essere pagato un balzello.
Una città stupenda ridotta al rango di Gardaland: la tariffa di cinque euro a cranio mi disturba assai.
A che pro? Non certo per abbattere i flussi turistici (abbiamo visto in tempo di Covid quanto abbiano pianto i commercianti per il calo) e anche le presenze di questo periodo tariffato sono aumentate. Si obietterà che a pagare sono tenuti solo quei disgraziati che vengono in visita un solo giorno e non sono neppure veneti. Ma è giusto tutto ciò?
Si paga già nei musei, nelle chiese, nelle consumazioni, attraverso la tassa di soggiorno… Per chi impone una tassa, la motivazione si trova sempre: dal 1917 esisteva anche la tassa sui pianoforti e i biliardi. Ma il fatto che per il semplice accesso a una città, per quanto stupenda, sia necessario pagare, mi ripugna. Questa poi: anche la bellezza del panorama sottoposta al diritto di censo. Ci riporta ai tempi di un medioevo dell’anima: brutale quanto l’idea che si ripropone ciclicamente, e dopo puntualmente derubricata a boutade, di vendere la Giuditta II di Klimt, proprietà del museo di Ca’ Pesaro, per finanziare qualche opera (stavolta il Palazzetto dello Sport, secondo la provocazione di aprile scorso dell’assessore Boraso).
In questo primo esperimento di gabella all’entrata in città, il comune ha incassato oltre 2 milioni di euro. Da cui l’anticipazione che l’anno prossimo si intenderà replicare l’esperimento, portando la tariffa a 10 euro. Venezia dispone già del suo Casinò, anzi due, e non merita di accentuare la percezione di città proibita, o macchinetta mangiasoldi accessibile solo a gente danarosa. Non possiamo permettercelo, è una specie di prostituzione. Evitiamo questa deriva mercificata. Facciamolo a salvaguardia di una democrazia che voglia mantenere almeno il fantasma delle sue radici popolari. Lo so: anche questo invito non elitario, dati i tempi che corrono, risulta opinabile.
Eventualmente pagherò pegno, come d’uso.