Come siamo giunti all’attuale crisi ecologica ed energetica? Ci siamo arrivati grazie al diffondersi della “monocultura del profitto”: una monocultura che si è imposta a spese della natura e delle risorse naturali accumulate in milioni di anni.

Il problema è che una monocultura risponde ad un principio di separazione, di atomizzazione dei processi che risultano slegati dalla comprensione del tutto: uomini, natura, ambiente.

Nel nostro paese la “monocultura del profitto” ha assunto varie forme, legate al succedersi dei diversi cicli economici che hanno accompagnato, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, la nostra storia politica ed economica con le relative declinazioni sociologiche ed economiche che hanno evidenziato una subalternità della politica, incapace di guidare un modello di sviluppo  rispettoso dell’ambiente, della natura e attento ad una equa distribuzione della ricchezza.

In Italia, dagli anni 50, la “monocultura del profitto” ha scritto un libro i cui diversi capitoli (fasi) hanno caratterizzato la nostra storia economico-produttiva “monopolizzando” l’idea di sviluppo. In Italia l’industria  dell’auto, il trasporto su gomma, l’edilizia e l’abuso del consumo di suolo con la relativa perdita irreversibile dei suoi servizi ecosistemici hanno costituito il volano iniziale della “monocultura del profitto” che ha poi dilagato diventando una costola del “consumismo di massa globale e climalterante” di oggetti e mode: un consumismo animato da “bisogni indotti” e che sta determinando  stili di vita con alti costi ambientali.

Nell’oggi, una volta finita nella strada senza uscita del cambiamento climatico, la monocultura del profitto sta cercando  di “monopolizzare” anche le modalità con cui far fronte all’emergenza climatica che essa stessa ha creato e lo fa in modo “disgiuntivo”, perpetuando l’errore di fondo: questa volta attraverso la “monocultura delle rinnovabili” su suolo agricolo e suolo naturale, mettendo a rischio sovranità alimentare e perpetuando l’accanimento terapeutico contro i servizi ecosistemici del suolo, essenziali per la sopravvivenza biologica della vita.

Il risultato dell’affermazione della “monocultura delle rinnovabili senza se e senza ma” corrisponde ad una delle  contemporanee declinazioni “greenwashing” della monocultura del profitto e lo possiamo constatare osservando il proliferare  a livello nazionale delle istanze di connessione a Terna (gestore della rete elettrica nazionale) di nuovi grandi impianti da fonti rinnovabili (fotovoltaico/agrovoltaico/eolico) su suolo agricolo o naturale.

La nota n. 51551 del 18 marzo 2024 della Soprintendenza speciale per il PNRR mostra però come siano  ben 5.678 le istanze di connessione di grandi impianti su suolo naturale e agricolo per una potenza pari 336,38 GW: più di quattro volte l’obiettivo, da raggiungere entro il 31 dicembre 2030, di 80 GW previsto dalla bozza di decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sovranità Energetica (MASE).

Ma se per ogni GW installato servono 10 kmq (fonte QualEnergia.it) la quantità di suolo agricolo e naturale ricoperta da grandi impianti eolici e fotovoltaici sarebbe pari a 800 kmq: più del doppio del suolo consumato in Italia negli ultimi 6 anni (dati Ispra) per usi residenziali, produttivi, infrastrutturali.

La bozza di decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sovranità Energetica del 7 giugno 2024 che dovrebbe disciplinare “l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti da fonti rinnovabili” contiene indicazioni generiche (riecco la subalternità della politica), di indirizzo, che lasciano il tempo che trovano dinanzi all’attacco massiccio di grandi aziende multinazionali che vogliono installare grandi impianti di energia rinnovabile su suolo agricolo e naturale in un paese che ha quasi il doppio (7,14%) di suolo consumato rispetto alla media europea (4,2%). L’Ispra stima come  per produrre tra i 59 e i 77 GW si potrebbero tecnicamente e logisticamente  utilizzare tra i 700 e i 900 km2 dei  3500 km2 che ricoprono i tetti degli edifici.

Da notare, inoltre, che in questo conteggio restano fuori una quantità enorme di superfici che hanno già perso definitivamente la loro capacità di fornire servizi ecosistemici, quali: aree di parcheggio, aree adiacenti autostrade, scarpate ferroviarie e  altre infrastrutture,  piazzali, aree dismesse o comunque già impermeabilizzate, bacini idroelettrici. 

Purtroppo, anche parte del mondo ambientalista, incapace di una visione di largo respiro, resta affascinato dalla scorciatoia disgiuntiva e superficiale delle rinnovabili “senza se e senza ma” su suolo agricolo e naturale. 

Dante Schiavon
Laureato in Pedagogia. Ambientalista. Associato a SEQUS, (Sostenibilità, Equità, Solidarietà), un movimento politico, ecologista, culturale che si propone di superare l’incapacità della “classe partitica” di accettare il senso del “limite” nello sfruttamento delle risorse della terra e ritiene deleterio per il pianeta l’abbraccio mortale del mito della “crescita illimitata” che sta portando con se nuove e crescenti ingiustizie sociali e il superamento dei “confini planetari” per la sopravvivenza della terra. Preoccupato per la perdita irreversibile della risorsa delle risorse, il “suolo”, sede di importanti reazioni “bio-geo-chimiche che rendono possibili “essenziali cicli vitali” per la vita sulla terra, conduce da anni una battaglia solitaria invocando una “lotta ambientalista” che fermi il consumo di suolo in Veneto, la regione con la maggiore superficie di edifici rispetto al numero di abitanti: 147 m2/ab (Ispra 2022),

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