Non è solo un’ipotesi, è una certezza: questa estate avremo meno acqua a disposizione. È uno degli effetti che già vediamo della crisi climatica in atto, l’altro è l’aumento medio della temperatura. Ma non può essere una notizia fra le tante che naufraga nella marea di informazioni che travolgono la nostra attenzione e la distraggono dal lavorio mentale, cognitivo: quello di mettere in fila le priorità, le urgenze, le precauzioni, le prevenzioni e da assumere come bussola per muoversi in un pianeta sempre più fragile. Davanti alla “prospettiva certa” la prossima estate e nelle estati future di una diminuzione della “risorsa acqua” a disposizione la “classe partitica” deve smettere di scimmiottare i ragazzi che protestano in modo disperato contro la nostra indifferenza verso i cambiamenti climatici e scegliere come limitare il disagio.

La “classe partitica”, per quel briciolo di dignità che le è rimasto, deve scegliere, deve agire, deve, in una parola, “governare” il “fenomeno innaturale dei cambiamenti climatici” con i loro effetti, applicando, qui ed ora, il “principio del buon senso” nell’approvvigionamento e nell’uso della “risorsa acqua”.  Il dibattito nei media mainstream che accompagna la narrazione sul da farsi per fronteggiare l’ennesima emergenza climatica risente, come al solito, di un eccesso di “semplificazione antropocentrica”, perché ricorre alla scappatoia “infrastrutturale” invocando la costruzione di “invasi artificiali”. 

Come se il “costruire” troppo e male non avesse già dato il suo notevole contributo nell’accentuare gli effetti dell’emergenza idrica: basta pensare alla cementificazione e all’impermeabilizzazione del suolo e alla perdita della sua capacità di infiltrazione annua di acqua piovana.  Nell’ultimo Rapporto ISPRA si legge come “le aree perse in Italia dal 2012 avrebbero garantito l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua di pioggia che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde.”  La prima “misura ecosistemica” da adottare per l’emergenza idrica è l’arresto del consumo di suolo, considerato che “un ettaro non urbanizzato trattiene fino a 3,8 milioni di litri di acqua”. (Paolo Pileri, Che cosa c’è sotto, Altreconomia). Dopo aver fermato, qui e ora, il consumo di suolo, se proprio si vuole riproporre il “mantra infrastrutturale”, bisogna rivolgere lo sguardo a una “infrastruttura dimenticata” dalla mitizzazione della cantierizzazione permanente del paese: la “rete idrica colabrodo”.

 Secondo i dati ISTAT del 2018 si perde il 42% dell’acqua immessa in rete: 156 litri al giorno per abitante. Però la riduzione delle perdite idriche della rete, secondo il Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale (CIRF), non può essere ottenuta prevedendo nel PNRR di investire entro il 2026 solo 900 milioni di euro, quando l’Ocse nel 2013 stimava che l’Italia avrebbe dovuto spendere 2,2 miliardi di euro/l’anno per i successivi 30 anni per far fronte alle necessità del paese e mettersi in pari con il resto d’Europa. Se la “classe partitica” all’unisono non sa parlare d’altro che di infrastrutture, eccone una da sistemare per far fronte ad un’emergenza che diventerà strutturale per i prossimi decenni. Dopo lo stop all’impermeabilizzazione del suolo e l’ammodernamento e sistemazione delle perdite   della “rete idrica” ci sono tante altre cose da poter fare per ridurre il consumo di acqua.

Per esempio, negare l’autorizzazione all’escavazione nell’alveo dei fiumi e nelle cave, finalizzata proprio alla produzione e al consumo di quel cemento che, in un’economia circolare al contrario, impermeabilizza il suolo e vanifica la sua capacità di infiltrazione dell’acqua meteorica, oltre a provocare subsidenza e l’abbassamento della falda. Per esempio, rivedere tutta la “filiera distributiva dell’acqua” a partire: dalla scelta in agricoltura di colture meno bisognose di acqua (canapa e grano, per esempio, ne necessitano meno del mais destinato all’alimentazione animale), dalla riduzione degli allevamenti intensivi che necessitano di molta acqua,  dal divieto ad utilizzare l’acqua dei torrenti per sparare neve finta (per 1 ettaro di pista con uno strato di neve di 30 cm. servono 1000 metri cubi di acqua), dalla possibilità di utilizzare l’acqua reflua per l’irrigazione, dal diniego a nuovi impianti di idrico minore su torrenti e fiumi che riducono il “deflusso minimo ecologico”, dal recupero dell’acqua piovana dal tetto degli edifici pubblici e privati, dalla emanazione di una serie di restrizioni e regole nell’utilizzo dell’acqua nelle strutture pubbliche e private.

Mi rendo conto come la “scorciatoia infrastrutturale”, anche di fronte all’emergenza idrica, sia sempre dietro  l’angolo del palazzo della classe partitica che, come   per produrre energia,  riesce a proporre  di ricoprire i crinali appenninici di pale eoliche e  i campi agricoli di pannelli al silicio al posto delle superfici già artificializzate; allo stesso modo   è altrettanto lesta a proporre, per far fronte all’emergenza idrica,  la creazione di “invasi artificiali”,  dimenticando come  il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la “falda” che è al riparo dal rischio della evaporazione nei grandi invasi e dell’aumento della temperatura e proliferazione algale nei piccoli invasi.  “La ricarica controllata della falda determina un ventaglio ampio di benefici oltre quello dello stoccaggio: falde più alte sono di sostegno a numerosi indispensabili habitat umidi, lentici e lotici; si previene la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda; falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra; livelli di falda alti contrastano l’intrusione del cuneo salino.” (CIRF Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale).

A margine di queste preoccupate riflessioni mi colpiscono alcuni atteggiamenti da parte delle istituzioni. È sbalorditivo. Scienziati, politici, giornalisti, tutti danno per certa un’estate siccitosa e il razionamento futuro dell’acqua potabile, ma nessuno, a livello istituzionale, che proponga già da subito di “fare economia” dell’acqua attualmente presente nelle falde, riducendo già da subito, ove possibile lo spreco.

La situazione è molto preoccupante ma nella sala da ballo del Titanic si continua a brindare.

Dante Schiavon
Laureato in Pedagogia. Ambientalista. Associato a SEQUS, (Sostenibilità, Equità, Solidarietà), un movimento politico, ecologista, culturale che si propone di superare l’incapacità della “classe partitica” di accettare il senso del “limite” nello sfruttamento delle risorse della terra e ritiene deleterio per il pianeta l’abbraccio mortale del mito della “crescita illimitata” che sta portando con se nuove e crescenti ingiustizie sociali e il superamento dei “confini planetari” per la sopravvivenza della terra. Preoccupato per la perdita irreversibile della risorsa delle risorse, il “suolo”, sede di importanti reazioni “bio-geo-chimiche che rendono possibili “essenziali cicli vitali” per la vita sulla terra, conduce da anni una battaglia solitaria invocando una “lotta ambientalista” che fermi il consumo di suolo in Veneto, la regione con la maggiore superficie di edifici rispetto al numero di abitanti: 147 m2/ab (Ispra 2022),

1 COMMENT

  1. Ottimo articolo. Grazie soprattutto per aver ricordato lo scollamento tra l’informazione mainstream e i problemi reali. Per esempio, per quanto riguarda gli inceneritori (solo in Italia denominati “termovalorizzatori” – termine rassicurante che significa nulla) non viene mai segnalato lo spaventoso consumo di acqua che comportano: l’attuale linea di incenerimento di rifiuti esistente a Fusina comporta la dissipazione di quasi 300.000 metri cubi all’anno dì acqua proveniente dal fiume Brenta e di 31.000 mc dall’acquedotto. Il mega inceneritore di fanghi di depurazione, provenienti da tutto il Veneto, proposto da ENI lì vicino è destinato ad aumentare enormemente questi consumi.

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