Non è, né può essere, un mestiere. Fare il “pacifista” è, prima di ogni altra cosa, una convinzione. Una fede, che può anche diventare missione. Di sicuro non lo è l’atteggiamento di chi sproloquia, spaziando dai giornali ai talk show ai social, infarinando la parola “pace” in ogni accalorato discorso sulla guerra in Ucraina. Come la parola “Jugoslavia” trent’anni fa, anche “Ucraina” è oggi sinonimo di sciagura per l’Europa. Perché di terre e popoli europei in entrambi i casi si tratta. Di traumi spaventosi che non possono venire archiviati in una indifferente rimozione collettiva. L’odore del pericolo dato dalla vicinanza geografica e culturale, è pregnante. Grande è la paura, sotto il cielo cupo d’Europa, di un coinvolgimento crescente dei Paesi membri nel disastro in corso ai confini orientali del continente. Per ora il conto da pagare è solo – e non è poco – economico. Ma se la guerra continua, si incattivisce, si allarga? Chi, a parte gli azionisti nell’industria degli armamenti, non auspica ragionevolmente la fine della guerra in Ucraina?

Il punto è che il variegato arcipelago arcobaleno di questi complicati anni Venti appare in forte affanno e non privo di imbarazzo davanti alle quotidiane cronache di distruzione e morte in arrivo dal Donbass, da Kyev, da Zaporizhzhia.  Questa non è più, come negli anni Novanta, una “guerra fuori dalla porta di casa” (ex Jugoslavia), ma una “guerra nella sala d’attesa” dell’Europa. Già dentro casa. Dove persino la capacità protettiva del potente ombrello Nato rischia di essere vanificata dalle pulsioni nucleari del lunare zar di Mosca. Tutto è cambiato rispetto al periodo balcanico: protagonisti, modalità di attacco e di difesa, informatica e informazione, percezione e realtà del pericolo. Non invece la filosofia della sopraffazione, non il richiamo a miti ancestrali di superiorità etnica, non la propaganda ignobile dei velinari di regime, non la famelica ambizione di potere di leader e di lobby.

L’odierno fronte “no war” si frantuma e si scontra- andare a rileggere le cronache delle manifestazioni del 5 novembre scorso – fra chi declama la “pace senza condizioni”, per chiudere il più rapidamente possibile e a ogni costo la partita, e chi invoca invece una “pace basata sulla giustizia”, schierandosi dalla parte degli ucraini vittime dell’aggressione neoimperialista putiniana. Fosse ancora in vita Alexander Langer, con il suo esempio e la sua autorevolezza, tutto sarebbe più chiaro e definito: lettura dei fatti, ruolo delle istituzioni, soluzioni adottabili. A rileggerla oggi, è ancora di straordinaria attualità la lezione dell’esponente pacifista e ambientalista sudtirolese, che tanto si spese per la causa della Bosnia-Erzegovina insanguinata dalla violenza della parte serba contraria all’indipendenza da una Jugoslavia già rimessa in discussione dalle secessioni di sloveni e croati. La diversità di scenario e di condizioni rispetto alla crisi ucraina non inficia il parallelo storico. Celebre resta il suo monito-invocazione “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”.

Criticando duramente l’impotenza di Nazioni Unite e Comunità europea nel trovare un’equa soluzione che ponesse fine alla prima guerra in Europa dopo il 1945,Langer scriveva, il 25 giugno 1995, parole di acuminata profondità: “Ci volevano, dunque, tre anni e soprattutto una presa di ostaggi dei caschi blu, fatto senza precedenti nella storia della comunità internazionale, perché leadership politiche e media europei riconoscano che in questa guerra ci sono aggressori e aggrediti, criminali e vittime”. Seguiva l’invito a rafforzare il mandato del contingente Onu, a non cedere al “ricatto intollerabile delle forze serbo-bosniache”, a “difenderci, in Bosnia, contro coloro che spingono all’epurazione etnica e religiosa come ideale politico e lo impongano perpetrando crimini contro l’umanità”. “Bisogna che l’Europa testimoni e agisca”, insisteva Langer, chiarendo che “di fronte ad una politica di sedicente neutralità, noi stiamo dalla parte degli aggrediti e delle vittime”.

Basterebbe sostituire la parola “Bosnia” con “Ucraina” per schiarire l’orizzonte incerto della galassia pacifista, italiana ed europea. Il nome di Alexander Langer non figura oggi fra i personaggi illustri insigniti, in patria, per alti meriti sociali o intellettuali. E questo nonostante l’esistenza, dal 1999, di una Fondazione molto attiva che gli è stata intitolata a Bolzano per “mantenere viva l’eredità“ del suo pensiero e “proseguire il suo impegno civile, culturale e politico”. Di recente – agosto 2022 – la città bosniaca di Tuzla ha tributato a Langer la cittadinanza onoraria “in memoria del suo impegno per la pace in tutta l’ex Jugoslavia, e soprattutto in Bosnia-Erzegovina e a Tuzla”. Una passione e una dedizione che portò l’eurodeputato italiano di Vipiteno a finanziare di tasca propria diverse iniziative a favore della causa, come ricorda l’Osservatorio dei Balcani e del Caucaso. Che fosse un lucido visionario, una voce o un portavoce isolato e disperato di un utopico ideale di fratellanza senza frontiere fra i popoli, questo poco importa. Il gesto terribile di togliersi la vita e la data stessa da lui scelta per metterlo in opera, sono fortemente simbolici di quanto l’immobilismo cieco dei garanti dell’ordine mondiale possa disarmare e schiacciare anche i combattenti più tenaci in difesa della pace e dei diritti violati: Langer si impiccò poco lontano da Firenze il 3 luglio 1995. Una manciata di giorni prima che l’esercito serbo-bosniaco comandato dal generale Ratko Mladic entrasse in Srebrenica, con l’incredibile complicità dei Caschi Blu dell’Onu a presidio della città, e facesse massacrare ottomila musulmani maschi che vi avevano trovato rifugio con le loro famiglie confidando nella “zona protetta” dalle Nazioni Unite.

Fra i numerosi scritti lasciati da questo indimenticabile “costruttore di ponti”, resta il suo meraviglioso “L’arte della convivenza”, ovvero “tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica” (riportato in “Alexander Langer, una buona politica per riparare il mondo”, a cura di Marzio Marzorati e Mao Valpiana, Legambiente e Edizioni Interno, 2019), nel quale spiega come sia non solo possibile ma “bello” far intrecciare e conoscere fra loro popoli e culture differenti insediati sullo stesso territorio. Il pensiero corre, così, all’oggi, all’Ucraina dilaniata nel Donbass fra l’appartenenza a due mondi che da almeno dieci anni non si capiscono e non si riconoscono più a vicenda. Due mondi e due stati, che non possono però essere messi sullo stesso piano. In un articolo intitolato “Cari pacifisti, vi scrivo: venite in Ucraina e capirete”, una giornalista di grande spessore professionale e umano come Francesca Mannocchi osserva che “in una guerra d’invasione, val la pena ricordarlo a chi scende in piazza, funziona così. Sono gli invasi che vivono nei bunker, scendono in metropolitana con i sacchi a pelo per paura di morire schiacciati dal tetto di casa, solo da un lato del confine si vive con le sirene antiaeree nelle orecchie dal 24 febbraio, è per questo che da un lato del confine non può esserci pace senza giustizia”. Un’osservazione ineccepibile, che potremmo e anzi dovremmo estendere anche agli altri ventidue conflitti censiti nel mondo (anno 2021): dalla Siria allo Yemen, al Sud Sudan alla Repubblica Centrafricana, al Nord del Mozambico, al Tigray in Etiopia, al Nagorno Karabakh conteso fra le ex repubbliche sovietiche di Armenia e Azerbaijgian. Ma quello delle guerre dimenticate, è un altro doloroso e spinoso capitolo.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

3 COMMENTS

  1. Bel pezzo e opportuno: questa memoria a Langer risuona cupa, ma indica anche un’uscita di sicurezza senza alternative. Grazie

  2. Grazie per aver dedicato queste riflessioni alla figura di Alexander Langer.Proprio in questi giorni la classe quinta BU, indirizzo scienze umane del Liceo “Giuseppe Berto”, ha approfondito la dimensione antropologica del suo pensiero che valorizza le culture,le lingue,il superamento dei confini.
    Il suo contributo completerà egregiamente il nostro lavoro.

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